L'anno in cui non è cambiato niente
Dalla moda alle nostre abitudini d'acquisto, il 2021 non ha mantenuto le sue promesse
10 Gennaio 2022
Le fini che portano a nuovi inizi sono sempre l’occasione ideale per tirare le somme, riguardare ciclicamente indietro a quello che si era promesso di ottenere e analizzare quanto si sia poi effettivamente ottenuto. Storicamente venivano definiti i “propositi di fine anno”, ma lo scorso anno, il 2021, arrivava con qualcosa in più di un semplice proposito di fine anno. Era il proposito di fine pandemia: se non fosse che la pandemia non è davvero mai finita. Riduzione degli sprechi, inclusività, sostenibilità, rallentamento e un ripensamento generale del sistema moda era quello che il 2021 avrebbe dovuto portare nell’industria. Ma quanto di questo è successo davvero? Cosa il mondo della moda - un sistema teoricamente estremamente mutevole ma in realtà profondamente immobile - ha visto veramente cambiare nell’anno che seguiva la più grande pandemia della storia recente?
Il calendario della moda è stato solo in parte ripensato: le Fashion Week sono state in gran parte private dagli eventi che le rendevano momenti fondamentali per i brand e l’assenza di show fisici ha semplicemente anticipato un trend che sembrava comunque già scritto, quello del ripensamento del fashion show in un'ottica di maggior entertainment. La moda ha provato a ripensare le sue priorità, trovando nuovi modi di intrattenere il pubblico: lo show di Balenciaga e la collaborazione con i Simpson è stato un ottimo esempio di questo processo. Una comunicazione cross-mediale che se da una parte allontana sempre di più la moda dall’idea antica di moda, dall’altra ibrida sempre di più i linguaggi avvicinandosi a quello che la moda dovrebbe tutto sommato fare, indagare il futuro. Ma l’industria può dirsi davvero soddisfatta del “cambiamento”? Il numero di show non è diminuito, anzi, si è solo dilatato, andando a spalmarsi durante tutto l’anno e in tutte le parti del mondo, moltiplicando il concetto di cruise e inventando ogni volta un modo diverso di definire una collezione. Non c’è però traccia di quel rallentamento invocato da Giorgio Armani alla fine del 2020 che era stato così tanto applaudito.
Il 2020 era stato anche l’anno in cui - a causa degli enormi problemi logistici e produttivi dettati dalla pandemia e dal blocco della supply chain - si era a lungo discusso del futuro dell’hype culture, delle iper-release e del proliferare delle collabo. Nell’ottica di avvicinare il mondo della moda alla tanto agognata sostenibilità si era parlato di mercato circolare, riscoperta dell’archivio, e più in generale “morte dello streetwear”, come aveva dichiarato Virgil Abloh quando ancora nessuno aveva mai sentito parlare di COVID-19. Al netto dei già dichiarati problemi produttivi - di Nike o GAP - che hanno portato a ragionare un ripensamento della filiera produttiva il sistema moda ha davvero rallentato nel 2021? Uno studio pubblicato da McKinsey a maggio del 2021 ha messo in evidenza come circa il 90% di quello che viene prodotto venga effettivamente messo da parte. La pandemia avrebbe dovuto uccidere il fast-fashion e invece non solo il fast-fashion è vivo - come spiegava questo pezzo di Fast Company - ma si è evoluto in qualcosa di molto diverso da quello che conoscevamo, mutuando i canoni della moda e addirittura collaborando con essa.
Il 2021 è stato l’anno in cui i fashion brand hanno cominciato una lenta per alcuni ancora molto poco comprensibile discesa nel Metaverso: da Gucci a Balenciaga il next step verso l’industria digitale è in parte avvenuto, anche se solo attraverso NFT e virtual try-on per il momento, nell’attesa di capire quale sarà l’effettiva nuova esperienza che il Metaverso potrà offrire ai consumatori. Consumatori che nell’era digitale sono diventati sempre più utenti ma che la moda, e il lusso in particolare, ha faticato a capire come ingaggiare soprattutto quando si parla di Generazione Z. Quanto successo a Chanel su TikTok è per certi versi emblematico della difficoltà di un certo tipo di moda di dialogare con il digitale, anche nell’era del digitale. Oltre tutti i cambiamenti strutturali che avrebbero dovuto accompagnare e guidare il mondo della moda nel 2021 ci sono poi quelli che riguardano tematiche sociali. La moda sarebbe dovuta diventare una industria più inclusiva dopo un anno - il 2020 - passato a supportare i black creative, ma come emerge da una lunghissima inchiesta del New York Times, non è poi cambiato così tanto. Allo stesso modo la “work revolution” invocata dallo State of Fashion 2021 di BoF non è mai veramente iniziata: la tossicità dell’ambiente lavorativo dell’industria - come evidenziato anche da alcune IG Story dell’ex head of content di Highsnobiety Christopher Morency - non è mai venuta davvero meno, ma anzi pare essersi acuita fino a sfociare in decisioni drastiche da parte dei grandi brand del lusso. La pandemia avrebbe dovuto cambiare gli essere umani, e con essi anche i mondi di cui facevano parte. Doveva succedere in meglio, poteva succedere in peggio. L’impressione è che però non sia cambiato niente, nonostante dovesse cambiare tutto.