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«Come degli artisti rifiutiamo il pensiero di esserlo» Intervista a Francesco Risso di Marni

Cos’è un brand di moda fuori dalle mani del suo fondatore? È una domanda a cui la nostra epoca sa dare solo risposte implicite, dettate dalla necessità tutta moderna di andare avanti, inventare e innovare costi quel che costi. Più che in altri campi, in quello della moda il problema dello snaturamento è centrale: come proseguire lo stile impostato da un fondatore manifestando anche il proprio? Il problema dei successori è dei più spinosi e nel corso degli anni ha prodotto tanti disastri quanti trionfi. Tra i trionfi c’è quello di Francesco Risso, che otto anni fa ha preso in mano le redini di Marni come erede di una designer amatissima, Consuelo Castiglioni, riuscendo nella complessa impresa di far proprio un brand diventato di culto grazie alla propria eccentricità e di proiettarlo verso un orizzonte internazionale, oggi immenso.  «Ho lavorato da Prada per tantissimi anni e ancora prima di lavorare da Prada ero fan di Marni», racconta il designer. «L’immagine che torna sempre alla mente è quella della famiglia Castiglioni negli anni ‘90 a Formentera, tutti vestiti di tela come un piccolo culto. Erano un po' in questa specie di bolla di mistero che li ha resi ancora più affascinanti». Ciò che però alimentava l’intensa mistica del brand era il suo «essere completamente controcorrente rispetto al normale andamento della moda, e però di esistere profondamente con dei grandi contenuti. Per esempio, hanno fatto dei negozi incredibili negli anni’90, che erano del tutto disruptive. C’era questa delicatezza nella fattura di oggetti che sembravano molto naïf ma restavano sempre molto materici». 

E proprio la materia e la sua manipolazione rimane la passione di Risso, che alla minima domanda è pronto a snocciolare un numero strabiliante di tecniche e lavorazioni che, nei suoi anni trascorsi negli atelier di Marni, ha messo in pratica espandendo i confini dell’identità del brand. Un lavoro visibile specialmente sulla texture che viene da lontano: «Marni ha sempre avuto questa sensorialità già con Consuelo Castiglioni, era una delle cose che forse mi appassionava di più del suo lavoro». Ma la sensorialità degli abiti, che Risso ha rimesso al centro del discorso lanciando qualche anno fa il trend del mohair , non riguarda solo gli archivi del brand ma un piacere personale del designer che spiega «la sensorialità mi connette di più sia con me stesso che con gli altri. Un oggetto sensoriale incuriosisce di più che uno completamente freddo, afono». La questione non è di secondaria importanza dato che proprio il caso di Marni è quello di un brand che, nell’ecosistema sempre più commerciale della moda, riesce a bilanciare in maniera unica una sperimentalità selvaggia con un ottimo successo di vendite. Un delicato equilibrio che Risso difende «con tutte le mie unghie, tutti i miei denti» e che lo stesso patron Renzo Rosso è interessato a mantenere. «Non in tutti i brand, anche quelli che ho conosciuto nelle mie esperienze passate, la sperimentalità e la commercialità hanno la stessa osmosi», spiega Risso. «Qui la sperimentalità ha portato un fuoco, oltre che grandi numeri, quindi le persone che vengono qui si aspettano un grande calore creativo – anche i clienti stessi». Un’impostazione che è metodologica e concettuale, come spiega il direttore creativo: «Tutti insieme abbiamo creduto alla profonda umanità di questa esperienza. Perché fare oggetti in questo modo, dà poi all'oggetto stesso un'espressione forte. Più noi siamo autentici nella nostra creatività e sperimentazione, più tutto può diventare immediatamente traducibile anche nel mercato».

Il processo creativo di Marni è descritto da Risso come qualcosa di simile a quello di un collettivo artistico, dove l'interazione con vari team e collaboratori è fondamentale. «Il nostro è un processo abbastanza evolutivo e dipende molto dal momento che viviamo. Ci sediamo spesso al tavolo, siamo in tanti, anche con i ragazzi degli altri team ma anche con le persone che lavorano per Marni in maniera più occasionale, come le persone che camminano nel nostro show che compongono la musica. Ci sediamo al tavolo e cerchiamo di capire innanzitutto che cosa sta succedendo attorno a noi. Quella è diciamo la base, su cui poi si evolvono tutta una serie di voli veri e propri. L’atto creativo in sé nasce da quella da quella base e si evolve a seconda di quello che dobbiamo portare ad esecuzione». Questo metodo collaborativo non solo alimenta la creatività, ma permette anche di mantenere il lavoro di Marni in sintonia con i cambiamenti e le sfide del mondo contemporaneo. Le storie che Risso racconta a riguardo sono numerose e, soprattutto, vanno molto in controtendenza con l’approccio più formalizzato di altri brand. Un ricordo particolare è quello della collezione SS22, forse una delle presentazioni più avant-garde del brand. Dopo il lockdown, ricorda Risso, «una delle cose più importanti è stato andare a ricercare una sensorialità che è parte integrante del nostro lavoro. Dovevamo attuare un gesto fisico importante, dunque abbiamo ricoperto tutte le pareti del nostro studio di tela e per quasi due settimane abbiamo dipinto tutti insieme. Abbiamo fatto miliardi di dipinti in quei giorni lì. Ma alla fine, quell’atto pittorico è diventato la nozione di base di tutto il processo dello show: abbiamo capito che il semplice gesto di una riga rappresentava per noi un simbolo di unione e di uniforme. Quella riga è diventata l'idea centrale di tutto lo show, fino a che addirittura non abbiamo invitato, vestito e persino dipinto a righe tutto il pubblico. Volevamo dire “Let’s get physical”, uniamo di nuovo i nostri intenti in questa sensorialità che ci appartiene profondamente e la traduciamo in tutte le possibili maniere».

Per Risso, la sensorialità è un elemento chiave del lavoro di Marni. Come si diceva prima, il brand ha singolarmente rilanciato il successo del mohair (Risso sentenzia con orgoglio: «Marni è texture senza ombra di dubbio in tutto e per tutto») ma il fil rouge che connette le diverse tecniche e sperimentazioni sul prodotto sta in un interesse artistico nella materia. «Siamo molto materici perché lavoriamo molto con le nostre mani, me incluso». La maniera in cui l’atelier funziona come un collettivo, mosso sia da una ricerca di immediatezza espressiva ma anche da un’esigenza di aderire non tanto al reale quanto all’attuale, fa dell’universo Marni qualcosa di unico: «Ci piace moltissimo fare con le nostre mani e lasciarci andare all'istinto. Credo che questa energia fosse presente già dal primo giorno in cui ho cominciato.  Facciamo tutto qua dentro, dai gioielli alle borse, anche alcune scarpe. Quindi a volte vedi formarsi delle cose che in altri posti, con degli asset incredibili, non vedi perché magari le fabbriche sono sparse in giro per l'Italia mentre qui c' è un è un piccolo gioiello da cui nasce un po' tutto in un modo molto artigianale, molto istintivo e non tradizionale. Renzo [Rosso, ndr] soprattutto ama questa cosa di Marni». Un mondo tattile che è presente anche quando si va in cerca di pure astrazioni geometriche, come nel caso dell’ultima collezione FW24 in cui «la sensorialità invece è stata quasi ribaltata». Per questo show, Risso voleva «trovare l'essenza di tutto quello che facciamo. La collezione era praticamente nera dall'inizio alla fine, quasi fredda nel modo in cui era realizzata, ma in realtà il suo processo è nato proprio dalla volontà di isolare tutta una stanza, vedere gli oggetti attraverso una luce e quindi di nuovo è sempre e solo perché tutta la tattilità connette profondamente. Le superfici sono esplose sul finale dello show, ma tutta la prima parte, ha risposto alla necessità di togliere tutto, qualsiasi tipo di informazione, per attivare un altro tipo di sensorialità che è quella visiva ed istintiva». 

Il desiderio di Risso per conoscere decostruendo viene da lontano. Cresciuto in una famiglia numerosa e rumorosa, fin da bambino ha trovato nella creazione di oggetti un modo per esprimersi. «Ho cinque fratelli e sorelle. Vivevo con mia mamma, mio papà e le altre famiglie, i nonni, fratelli, fratelli di altre famiglie. Era veramente una specie di comune. Mio papà, era un personaggio molto eclettico e ogni giorno a casa c’erano ondate di gente. E io ero molto piccolo e sono sempre rimasto un po' in questa posizione di osservatore. La mia necessità di esprimermi e di parlare si è trasformata nell'esigenza di fare degli oggetti o fare delle cose, finché a un certo punto ho cominciato a farmi i miei vestiti con tutti quelli che trovavo per casa e facendo arrabbiare i miei familiari». Un’ambiente vivace ha nutrito la sua creatività, portandolo a sperimentare fin da giovane con i vestiti dei familiari, ma che lo ha anche spinto a viaggiare giovanissimo per il mondo. A sedici anni si trovava a Firenze, già immerso nel mondo del clubbing, e nello specifico nello storico locale Tenax «e poi  a diciassette anni sono andato a New York. Ho conosciuto un sacco di persone che sono diventate un po' la mia famiglia in quegli anni - c'era una cultura incredibile». Ed è stato lì che il giovane Risso ha deciso che sarebbe diventato un designer, solo dopo, però, un robusto addestramento nell’arte. «Prima di cadere nella moda ha studiato arte.  Era il periodo nella mia adolescenza in cui non avevo ancora capito che volevo far vestiti e pensavo che sarei diventato un artista o un regista o qualcosa del genere». Un momento che ha fornito lezioni indelebili: «Noi qui non ci sentiamo degli artisti, anzi un po' la rifiutiamo questa cosa perché io sono profondamente legato al fatto che i vestiti e gli oggetti che facciamo sono degli oggetti che convergono verso un senso di piacere per le persone che le indossano. Un approccio molto diverso dall'arte. A livello, di come produciamo le cose a volte sembra come essere un po' in uno studio di un artista. E forse un po' come degli artisti rifiutiamo anche il pensiero esserlo».

«La sensorialità mi connette di più sia con me stesso che con gli altri. Un oggetto sensoriale incuriosisce di più che uno completamente freddo, afono». «La sensorialità mi connette di più sia con me stesso che con gli altri. Un oggetto sensoriale incuriosisce di più che uno completamente freddo, afono».

Guardando al futuro, Risso spera di mantenere una connessione autentica con il pubblico e di continuare a esplorare nuove possibilità creative. «Siamo molto fortunati perché quello che ci tiene particolarmente uniti, vivi e focosi nel fare è il fatto che arriviamo sempre comunque attraverso un processo in cui tutti noi vogliamo imparare qualcosa. Questo ci tiene legati in un senso circolare, paritetico». La sua visione è quella di una moda che non solo riflette la società, ma che vi partecipa attivamente, creando un dialogo continuo e stimolante. Nonostante i problemi sia geopolitici, che culturali, che economici che l’industria del lusso sta attraversando: «Penso che siamo in un momento di grandissimi dubbi e tutti si trovano nelle stesse difficoltà. Questo deriva dal fatto che siamo passati da un’epoca in cui la moda era fatta per delle nicchie e dei pubblici molto specifici a una in cui la moda ha voluto conquistare tutto il mondo e non solo a livello numerico, ma anche di presenza. E vuoi essere in tutto il mondo devi cominciare ad accontentare tutti quanti: devi anche stare attento a come parli, a come comunichi». Ma per il designer il senso dell’ottimismo non crolla dato che questo «è un momento di grandissima opportunità, perché è speriamo di riconnetterci un pochino di più. Io lo dico spesso alle persone con cui lavoro: nel momento in cui diventiamo autoreferenziali o cominciamo a disconnettersi con la realtà datemi uno schiaffo. Io non faccio cose perché voglio che siano chiuse nella teca di un museo, ma perché voglio che quelle cose esistano in un movimento sociale. Secondo me sono tutti in difficoltà perché si sentono disconnessi dal momento. Si sente tanta fatica. Questo forse arriva da un eccesso di zelo».

Che si tratti o no di un eccesso di zelo, Risso si mantiene attivissimo sia sul lavoro che fuori. «Faccio da un sacco di attività, tra cui suonare il violoncello. Faccio un sacco di sport, mi diverto un sacco a esplorare.  Sono come una specie di bambino, non mi capacito di aver quarantun anni». E tutta questa vulcanica attività ha portato, dopo una stagione in cui il brand ha presentato le proprie collezioni nelle principali capitali della moda mondiale, prima di tornare a Milano, a una nuova e importante tappa: l’apertura della Milan Fashion Week – apertura fortemente voluta da Risso e che ha trovato l’appoggio della Camera della Moda. «Negli ultimi tre anni, abbiamo viaggiato e fatto un sacco di sfilate fuori, a volte slegate completamente dal calendario. Sono diventati dei momenti molto speciali, perché slegati da quello stress che tutti purtroppo provano dato che queste settimane sono diventate estremamente intense per tutti, noi inclusi. La mia scelta di di aprire è stata dettata dal fatto che per me è importantissimo, per la prossima collezione, respirare un senso di leggerezza che spero che anche l'audience, come dire, possa respirare nello stesso modo in cui respiriamo noi».

CREDITS:

 

Interview Lorenzo Salamone

Photographer Giuseppe Triscari
Photographer Ass. Ana Loffehardt
MUAH Andrea Severino Sailis