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Fare vestiti in Palestina: intervista a Trashy Clothing

La satira y2K di Shukri Lawrence e Omar Braika in collaborazione con Barragàn

Fare vestiti in Palestina: intervista a Trashy Clothing  La satira y2K di Shukri Lawrence e Omar Braika in collaborazione con Barragàn
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Fotografo
Omar Sha3

Se dirigere un brand indipendente è già una sfida di per sé, per Shukri Lawrence e Omar Braika è un'impresa ancor più coraggiosa. Fondato in Palestina e tuttora basato in Giordania, Trashy Clothing è un brand di lusso anti-lusso, «un cavallo di Troia che sfida il sistema dall’interno», come lo definiscono i due direttori creativi. Con il giusto mix di cattiveria e satira, ironia e nostalgia, il brand si è affermato negli anni per la sua estetica marcatamente anni 2000, un omaggio da parte dei designer alla comunità queer araba di cui loro stessi fanno parte. Attraverso la moda, Lawrence e Braika difendono un attivismo intersezionale che oltre a supportare la causa palestinese difende i diritti delle persone appartenenti al gruppo LGBTQIA+ del Medio Oriente. L’ultima collaborazione di Trashy Clothing con il brand messicano Barragàn è diretta testimonianza della loro visione personale della Guerra: con il titolo di Arsenal of Democracy, la capsule collection tratta il tema dell’imperialismo attraverso codici stilistici precisi in un mix tra culture estremamente diretto. La collaborazione con Barragàn è nata da un tweet, raccontano i due designer, in cui un utente sottolineava quanto i due brand fossero simili tra loro. «Appena l’abbiamo visto, abbiamo pensato che fosse arrivato il momento giusto - e aggiungono - entrambi utilizziamo un linguaggio legato all’humour e alla satira che e ha segnato l’intera collaborazione». 

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Anche se il messaggio presentato in Arsenal of Democracy è esplicito, i design raccontano i sentimenti di Braika e di Lawrence nei confronti della società occidentale attraverso un linguaggio di nicchia. «Facciamo sempre riferimento alle icone gay arabe degli anni 2000 - spiega Lawrence - in una delle immagini della campagna, ad esempio, si intravede lo sguardo di Haifa Wahbe». I gioielli, gli accessori, le capigliature e persino il trucco presenti in Arsenal of Democracy attingono dalle culture di entrambi i brand, anche se Trashy Clothing è stato supportato insistentemente da Victor Barragàn, sottolineano Braika e Lawrence. Con riferimenti che spaziano dal dollaro americano imbrattato di sangue alla figura di Monica Lewinsky, i due brand hanno espresso il loro punto di vista secondo un'emozione univoca: la frustrazione. «Ogni collezione fa riferimento a ciò che ci ha colpito, il brand stesso è una documentazione delle nostre esperienze come palestinesi nel mondo. - raccontano i direttori creativi - come persone queer nel mondo. Tutte queste realtà sono politicizzate, che noi lo decidiamo o meno, e in questo caso guardiamo alla guerra e al modo in cui viene etichettata come pace dalle potenze occidentali». 

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Oltre a rappresentare una sorta di lettera aperta per gli Stati Uniti, la collaborazione tra Trashy Clothing e Barragàn offre una risposta secca a tutti quelli che pensano che la moda non possa essere politica. A livello di archetipi, il personaggio del portatore di pace e quello del freedom fighter - così come quello delle identità queer - altro non sono che look codificabili, con l’unica differenza che il primo è sempre stato glorificato mentre gli altri due stanno tuttora combattendo contro stereotipi e marginalizzazione. «Abbiamo giocato molto con l'idea delle psyops: la spada presente nella campagna rappresenta la lotta dei freedom fighter e racconta il doppio standard che l’Occidente riserva per le armi - spiega Lawrence - per l’America e i suoi alleati, solo le loro armi sono democratiche». Il discorso politico presente nella collaborazione tra Trashy Clothing e Barragàn riprende gli stessi temi presentati da Lawrence e Braika nell’ultima collezione del brand palestinese, in cui lo stereotipo del politico americano e della sua first lady, come le giacche dalle spalle ampie e gli abiti couture, sono stati abbinati a dettagli pulp. «Abbiamo macchiato di sangue le mani dei modelli (come se fosse un tatuaggio all’henné) per presentare un’idea di classe e di lusso che però ha qualcosa di storto. I look evocavano una sensazione di disagio nello spettatore». 

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Per Lawrence e Braika, lavorare come designer e brand owner durante la guerra sulla Striscia di Gaza li sta mettendo di fronte a enormi ostacoli. «Stiamo combattendo due battaglie - raccontano i direttori creativi - quella per la nostra terra natale e quella per la nostra queerness». Aggiungono che grazie alla satira riescono a proteggere il brand e la sua community, costruita principalmente da persone queer arabe che, come loro, adesso si sentono più in pericolo che mai. Nonostante il loro lavoro sia ben ricevuto all’interno della fanbase di Trashy Clothing, racconta Braika, fare parte di una industry legata al glamour e all’immagine mentre il loro popolo sta affrontando un periodo tragico è surreale. «Continui a chiederti cosa stai facendo, qual è il tuo obiettivo - dice Braika - non sembra vero. Nello stesso giorno in cui eravamo a Parigi per la Fashion Week, appena siamo tornati in Giordania, potevamo vedere i razzi in cielo». Mentre il mondo si innamora dei design ironici dei principali brand di lusso perché offrono conforto in tempi di incertezze, per Trashy Clothing la satira si rivela una potente arma politica. La prova che, se fatta bene, nella moda anche l’evasione fantastica può celare un vero messaggio.