Riuscirà Peter Do a farci ri-innamorare di New York?
Da solo, il designer originario del Vietnam sta resuscitando le icone della Golden Age della città
08 Settembre 2023
È esistita un’epoca, a cavallo tra i ’90 e i primi 2000, in cui il mito di New York e della moda di New York era al suo culmine: nel ’97 Helmut Lang si era trasferito nella Grande Mela, facendo della fashion week cittadina la prima del fashion month; Donna Karan e il suo DKNY erano, al pari di Calvin Klein e dello stesso Lang, sinonimo del minimalismo anni ’90; la regina dei socialite, Carolyn Bessette-Kennedy, faceva incetta di pezzi di Prada e Yohji Yamamoto ed era diventata la musa di Versace; Bloomingdale, Saks e la Quinta Avenue erano diventate sinonimo di shopping di lusso e di stile; le pubblicità di Banana Republic scattate da Bruce Weber erano leggendarie. Lo stile era semplice, piano, per nulla complicato: immaginate slip dress, maglioncini di cachemire aderenti, occhiali da sole leggeri in acetato o metallo, completi monocromi, dolcevita e pantaloni di pelle neri, blazer e jeans. Poi quel mondo, progressivamente, scomparve portando con sé anche la rilevanza di una New York Fashion Week che pareva sempre di più un pallido riflesso di quelle di Milano, Parigi e Copenhagen. Ma tutto cambierà questo mese grazie a uno dei designer di culto più apprezzati degli ultimi anni, Peter Do debutterà domani come nuovo direttore creativo di Helmut Lang, poi, a Parigi, presenterà la nuova propria collezione del suo brand eponimo, già emblematica della “nuova” moda di New York e, infine, presenterà una collezione collaborativa con Banana Republic a ottobre.
Ora, se sappiamo cosa attenderci dalla collezione eponima di Do, ciò che il designer ci riserva per il revival di Helmut Lang potrebbe essere una grande sorpresa ma soprattutto un trampolino di lancio ideale per Do nella cultura della moda mainstream. Dal 2005 a oggi, dopo il congedo di Helmut Lang dalla moda, il brand che porta il suo nome è diventato sempre meno rilevante e lontano dalle sue origini. Certo, anni e anni di hoodie logate hanno contribuito a non far sparire il nome del brand dalla memoria collettiva, dandogli anche una certa presa sulle nuove generazioni, ma hanno anche trasformato un brand noto per la sua innovazione senza precedenti, per la sua brillante originalità a un “normale” produttore di capi streetwear. Questo senza contare la girandola di direttori creativi, chi più e chi meno validi, che avvicendandosi al timone del brand hanno eroso la fiducia dei consumatori. Paradossalmente si è creata una situazione per cui i capi pre-2005 di Helmut Lang arrivano a costare migliaia di euro nel resell, e quelli moderni vengono venduti per qualche decina di euro. L’entusiasmo che circonda il debutto di Do, che per l’occasione ha anche fatto circolare gli iconici taxi con la pubblicità sul tetto, è altissimo e proprio il suo arrivo potrebbe dare la scossa elettrica che serve per far tornare a battere il cuore del brand.
Quanto a Banana Republic, altra icona del mito pop di New York (appare pure in Sex and the City e Will & Grace, per fare due nomi) la collaborazione con Do potrebbe servire a spingere il brand fuori dal fosso in cui è caduto insieme all’intero gruppo Gap. A fine agosto, il report trimestrale del gruppo parlava di vendite nette pari a 480 milioni di dollari, in calo dell'11% rispetto al 2022 con vendite comparabili iminuite dell'8%. Eppure, considerato quanto elusive e costose siano le creazioni di Do, è quasi certo che l’intera collezione finirà sold-out nel giro di pochissimo – e che i fan di Do di tutto il mondo proveranno ad accaparrarsela proprio come, nell’anno del lockdown, accadde alla collezione collaborativa che la designer Jil Sander (non il brand) firmò insieme a Uniqlo. All’epoca, Banana Republic si trovava in un incrocio perfetto di classicità, qualità e accessibilità che lo aveva effettivamente reso iconico. Oggi, gli appassionati di archive fashion americana vanno religiosamente in cerca di vecchi pezzi di Banana Republic, come anche degli item di LL Bean, J.Crew e DKNY, che possiedono una semplicità di design e una qualità di materiali che gli abiti fast fashion di oggi semplicemente non hanno più. Ora, già da qualche anno Banana Republic ha provato a riaffacciarsi sul mercato, trovandolo però già prossimo alla saturazione anche grazie a nuovi fenomeni mondiali come Zara o Uniqlo ma soprattutto scoprendo di essere fuori dall’establishment culturale. La decisione di collaborare con Do, un designer il cui precoce mito è già radicato nel pantheon della moda cittadina tanto quanto quello di Halston, rappresenta forse la scelta giusta per dare visibilità a entrambe le parti.
Più che al trionfo lavorativo di un designer assolutamente dotato (o meglio, oltre al suo trionfo lavorativo) questa tripletta di eventi che ha Do al suo centro non solo promette di ridare a New York la rilevanza che aveva un tempo ma pare anche il ritorno in grande stile di una mitologia intera. Un ritorno che non è una copia conforme ma un rinnovamento vero e proprio: se già col suo brand Peter Do suscitava forti entusiasmi nella nicchia dei connoisseurs, la ricomparsa di Helmut Lang dopo anni di squallida commercializzazione e l’arrivo di un’altra collezione più democratica con un iconico mall brand dei tempi che furono metteranno il nome di Do, proverbialmente, sulle bocche di tutti. Se si tratterà di un reset culturale o meno potremo dirlo solo quando le collezioni saranno effettivamente visibili – ma le ottime premesse, oltre che la bravura di Do, sembrano parlare da sé.