La moda sta celebrando o sfruttando Andy Warhol?
Riflessioni su un artista onnipresente
05 Aprile 2022
«L’arte degli affari è ciò che viene dopo l’arte. Ho iniziato come artista commerciale e voglio finire come artista degli affari. Essere bravo negli affari è la forma d’arte più affascinante. […] Fare soldi è un’arte, lavorare è un’arte – e i buoni affari sono la migliore forma d’arte», scrisse una volta Andy Warhol nei suoi diari. Una frase che fa molto pensare – specialmente in un’epoca come la nostra divisa tra la commercialità e l’unicità dell’arte. Tutte nozioni che Warhol aveva gettato fuori dalla finestra dichiarandosi superficiale e amante del consumismo, della ripetibilità commerciale dei prodotti industriali, di ciò che la cultura del tempo aveva di pop. E vedendo la maniera in cui, oggi, la moda fa uso di Andy Warhol e della sua arte, e cioè trasformandone il lascito artistico in una serie di grafiche facilmente vendibili, verrebbe forse da chiedersi se l’artista si considererebbe più celebrato o sfruttato dall’industria. Warhol, dopo tutto, era infatuato della celebrità, delle icone popolari, della sorridente commercialità dei divi di Hollywood – avrebbe forse amato la nostra epoca, il digitale, Instagram e probabilmente anche l’idea di fast fashion. Parliamo in fondo dello stesso artista che dichiarava che la cosa più bella delle capitali del mondo era McDonald’s. «Quel che c'è di veramente grande in questo paese è che l'America ha dato il via al costume per cui il consumatore più ricco compra essenzialmente le stesse cose del più povero», scrisse una volta. «Mentre guardi alla televisione la pubblicità della Coca-Cola, sai che anche il Presidente beve Coca-Cola, Liz Taylor beve Coca-Cola, e anche tu puoi berla».
Nel mondo della moda e del merch, il nome di Andy Warhol è apparso nel corso degli anni su prodotti di Vans, Eastpak, Medicom Toy, Supreme, Zara, Uniqlo, Retrosuperfuture, Comme des Garçons, Pull & Bear – persino Bottega Veneta ha di recente sfruttato il prestigio di Warhol mostrando al pubblico le Polaroid che l’artista scatto alla boutique newyorchese del brand negli anni ’80 e tornando a far parlare del cortometraggio Bottega Veneta Industrial Videotape. Non si tratta della sola moda: ci sono tavole da skate, suppellettili, puzzle, modelli one-off di BMW, vinili, pubblicità di Burger King, profumi. In linea teorica, Warhol avrebbe forse visto questa mercificazione come una sorta di trascendenza, di apoteosi consumistica. Ma in un’epoca in cui persino Netflix ci offre con la sua serie, The Andy Warhol Diaries, una dettagliata esplorazione del lavoro artistico di Warhol in cui la sua voce è stata ricreata dalle intelligenze artificiali per leggere "dal vivo" i suoi diari privati, è inevitabile sentire un poco di amarezza nel vedere la rilevanza culturale di questo artista appiattita e usata per vendere l’ennesima t-shirt a buon mercato, l’ennesimo ammennicolo, l’ennesimo oggetto fondamentalmente inutile. Tanto più che tutte queste collaborazioni usano il nome di Warhol nei limiti della fama delle sue opere, senza frequentare per nulla il vero, grande e a volte “scandaloso” patrimonio del suo catalogo integrale. I lavori di Warhol andavano infatti ben oltre la zuppa di pomodoro, le banane e Marilyn Monroe e affrontavano temi che all’epoca era impossibile trattare come l’alienazione sociale, la pena di morte, l’HIV, la cultura LGBTQ+, la prostituzione, la droga – tutti aspetti di un’artista multiforme che non possono essere stampati su un paio di sneaker di tela o sul retro di una hoodie e che non solo sono meno immediatamente commerciali ma che fanno ancora riflettere su quanto la nostra società di massa contemporanea sia pronta ad affrontarli. Ed è qui che sta il vero limite della mercificazione che si è fatta dell'artista e della sua opera.
Forse unico esempio di uso intelligente delle opere di Warhol nella moda fu quello di Raf Simons durante la sua breve ma brillante stagione alla guida di Calvin Klein. La collaborazione tra The Andy Warhol Foundation e Calvin Klein 205W39NYC per la collezione SS18 fu più che indovinata: non solo Raf Simons ricontestualizzò il lavoro di Warhol in senso multidisciplinare, tra i set disegnati da Sterling Ruby e i suoi stessi design, ma affondò lo sguardo nel lato più malinconico e macabro del lavoro dell’artista stampando gli abiti le sue foto di incidenti stradali e sedie elettriche, mettendo maliziosamente i fotogrammi del film Kiss sulla biancheria intima e ritratti di Stephen Sprouse (uno dei primi designer, insieme ad Halston, a portare il linguaggio di Warhol nella moda) ma anche citando indirettamente l’artista ricoprendo di plastica alcuni cappotti di lana – tocco, c’è da dire, che è un po' un trait d’union tra i linguaggi di Simons e Warhol. «American horror, American dreams», spiegò Simons a Vogue, dopo aver mescolato nella stessa collezione citazioni a The Shining, Carrie e a Dennis Hopper. Il lavoro di Simons con questa collezione era significativo proprio perché non mercificava Andy Warhol per se stesso, riproponendo il suo lato più “facile” e riconoscibile, ma ne contestualizzava le opere in un universo di reference più ampio per dipingere un ritratto della cultura americana vista da un europeo. A oggi, nessun altro designer ha interpretato l’arte di Warhol con la stessa efficacia.
Per rispondere alla domanda del titolo, potremmo dire che la moda sta sia celebrando che sfruttando Andy Warhol – sbilanciandosi però leggermente sul lato dello sfruttamento. Forse a Andy Warhol essere mercificato sarebbe piaciuto anche più che vedere la sua vita privata dissezionata attraverso mille film e mille documentari. Dopo tutto, come scriveva Vanessa Friedman nel 2018, in piena era Trump, viviamo in un’epoca profondamente Warhol-iana:
«Viviamo in un momento in cui Warhol è onnipresente – in un paese guidato dal presidente più Warholiano di sempre, in un’epoca in cui Instagram ha fatto di ciascuno un influencer per 15 minuti, nel corso di un anno in cui il suo lavoro è stato celebrato come non mai».