A Guide to All Creative Directors

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Perché sempre più brand stanno tornando indipendenti

Alanui è il terzo in pochi mesi. Seguirà presto anche Jimmy Choo?

Perché sempre più brand stanno tornando indipendenti Alanui è il terzo in pochi mesi. Seguirà presto anche Jimmy Choo?

Carlotta e Nicolò Oddi hanno annunciato di aver riacquisito la quota di partecipazione che New Guards Group deteneva in Alanui, il brand che i due fratelli avevano fondato nel 2015 a Milano. Un passaggio che segna il ritorno all’indipendenza per il brand, che tornerà a gestire in maniera autonoma tutte le funzioni aziendali, comprese le operazioni e la distribuzione. Carlotta Oddi manterrà il suo ruolo di Direttore Creativo, mentre Nicolò Oddi proseguirà il suo incarico come Amministratore Delegato, assicurando la continuità della strategia aziendale. L'operazione di riacquisto rappresenta per i fondatori un'opportunità per rafforzare ulteriormente l'identità del brand e gestirne la progettualità. A partire dalla stagione SS26, Alanui distribuirà direttamente le proprie collezioni particolarmente negli USA e in Europa e avrà un proprio showroom a Milano. L'obiettivo immediato sarà quello di consolidare il canale wholesale in queste aree, prima di espandersi ulteriormente in Asia, dove il brand ha già esplorato il mercato attraverso pop-up store in Giappone. L'operazione di riacquisto di Alanui si inserisce nel contesto più ampio dello smantellamento progressivo di New Guards Group, divisione di Farfetch, che ha perso la licenza di Off-White e venduto Palm Angels a Bluestar Alliance nel mezzo di un processo di ristrutturazione aziendale per affrontare una fase complessa (volendo usare un eufemismo) della sua gestione finanziaria. 

La notizia si iscrive però in un contesto anche più grande della colata a picco di Farfetch e del New Guards Group. Negli ultimi mesi infatti altri due designer hanno voluto riacquisire il controllo completo delle proprie operazioni: Stella McCartney e Giuseppe Zanotti hanno entrambi acquistato indietro le quote di minoranza che la famiglia Arnault, sotto forma di LVMH o di L Catterton, aveva acquisito negli anni passati nei rispettivi brand. A colpire è la frequenza di questi casi, che con Alanui diventano tre in sei mesi, e che in generale paiono a tutta prima operazioni controintuitive: tornare indipendenti in un mercato inclemente come quello della moda del 2025 non sembra una mossa consigliabile – non di meno possiamo presumere che sia nel caso di McCartney che in quello di Zanotti il business del brand sia diventato abbastanza forte da consentire il ritorno all’indipendenza. Eliminare gli investitori esterni significa anche riacquisire autonomia in un contesto industriale in cui le quotazioni in borsa e la presenza di finanziatori significano una rinuncia al controllo totale sull’azienda e dunque una minore flessibilità strategica e ovviamente portano a una maggiore distribuzione degli utili all'interno della sua azienda. Ma Zanotti e McCartney sono business milionari. Il caso di Alanui pare diverso, più simile per molti versi alla volta in cui i founder di Proenza Schouler riacquistarono le quote del brand dai loro investitori nel 2018. In generale, c’è come la sensazione che sia i singoli designer che i grandi gruppi stiano ripensando il modello del conglomerato: i primi vogliono autonomia piena senza dover spartire la metaforica torta con nessuno, i secondi si sono resi conto che strutture troppo grandi tendono a crollare sotto il proprio stesso peso. 

Con gran parte dei gruppi industriali del lusso che di questi tempi versano in acque, se non cattive, comunque non ottime, poi, è naturale che la categoria dei designer-imprenditori voglia prendere le distanze da un modello che inizia a mostrare segni di stanchezza – proprio come ora, in tempi di crisi, diversi gruppi stanno ragionando sul divesting, vendendo o liberandosi di brand ormai diventati un peso per il resto delle operazioni, traducendo questi business in preziosa liquidità. È il caso, ad esempio, di Capri Holdings: il WSJ ha raccontato, in una recente inchiesta, di come il CEO John Idol abbia voluto prima spingere Versace verso territori del quiet luxury cercando di riposizionare il brand e scontrandosi con Donatella per poi risolversi a venderlo quando le cose non sono migliorate. Lo stesso potrebbe presto accadere anche a Jimmy Choo che, secondo un recente articolo del Telegraph, potrebbe presto tornare nelle mani di Tamara Mellon, la mega-manager che lo aveva acquisito nel 1996, facendolo diventare un fenomeno mondiale, per poi venderlo nel 2011. L’anno scorso il gruppo Tomorrow ha venduto A-Cold-Wall nove mesi dopo averlo acquisito dal suo founder, mentre di recente LVMH ha da un lato acquisito quote di minoranza in alcuni brand come Kapital e Our Legacy ma venduto marchi secondari nella sua line-up come Off-White, Stella McCartney e Thomas Pink ma secondo indiscrezioni ha valutato di liberarsi anche di Marc Jacobs; Kering si è liberata della catena di outlet The Mall lo scorso gennaio, Aeffe ha approfittato dell’ingresso di Lorenzo Serafini in Alberta Ferretti per chiudere la linea Philosophy. Forse, seguendo la filosofia di tagliare i business “non-core”, affrontando cioè la tempesta gettando la zavorra in mare, la moda sta trovando la strada verso la decrescita rompendo la situazione di “oligopolio” in cui l’industria aveva iniziato a ritrovarsi.