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Phoebe Philo è tornata

Le prime immagini del brand non hanno deluso le aspettative

Phoebe Philo è tornata  Le prime immagini del brand non hanno deluso le aspettative

Un lunedì qualunque di fine ottobre, a distanza di sicurezza dalle caotiche fashion week, l'ufficio stampa di Phoebe Philo ha inviato a tutti gli iscritti alla newsletter del brand l'annuncio dell'apertura ufficiale del sito: «phoebephilo.com is now open». Una fotografia che riporta texture diverse, tra la pelle e il vetro, fa da sfondo ad il nome della designer in stampatello rosso, mentre una volta aperto il sito gli occhi e i corpi delle sue modelle sono i primi a saltare all'occhio del visitatore - tra cui Daria Werbowy, già presente nel primo sneak peek del brand. La Home Page ritrae una lista di volti imponenti e rigorosi, nudità e silhouette voluminose. Tra le proposte più emozionanti la collana MUM, andata sold out in poche ore, cappotti in lana di pecora e abiti cut out in pelle che ci riportano ai suoi anni da Celine, quando il brand aveva ancora l'accento nel suo lettering ed era sinonimo di femminilità e stranezza nella migliore delle combinazioni possibili. Lo stesso impeto di modernità e avanguardia che ci ha fatto innamorare di Philo agli inizi della scorso decennio è riapparso sui nostri schermi con prezzi meno accessibili che mai (i pantaloni fino a $2,400, gli abiti fino a $8,500, le giacche e i maglioni fino a $4,800, in pelle o in montone fino a $25,000) che però non hanno fermato un’orda di fan dal comprare l’intero catalogo che a nemmeno 24 ore dal lancio inizia a colorarsi del rosso sold out.

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Ora, dato che il brand non possiede praticamente storytelling al di fuori delle immagini di accompagnamento della collezione e del suo statement sulla produzione, il dato più importante che possiamo cavare dal sito è questa dichiarazione: «Siamo decisi a creare una casa di moda che sia socialmente ed ecologicamente consapevole. [...] Ci impegniamo a ridurre al minimo gli sprechi e a evitare la sovrapproduzione, producendo in particolare meno della domanda prevista. [...] Ci impegniamo a gestire una catena di approvvigionamento contenuta e ben gestita». Insomma, il modello pare nuovo in un più ampio ecosistema moda dove le mega-boutique di cinque piani stanno per diventare la norma e i brand vendono i propri prodotti ai quattro angoli del mondo. Il modello di Phoebe Philo rappresenta forse l’incrocio del modello produttivo di una bottega artigiana, del modello dei drop limitati di Supreme e della nozione di “offerta sempre inferiore alla domanda” che tiene sempre folta la fila di clienti anelanti davanti le boutique di Hermès. È una scarsità programmatica in cui però potrebbe nascondersi in germe la via d’uscita da quel dilemma esistenziale in cui si trova la moda oggi: come massificare il lusso? Il fatto è proprio questo, il lusso non può massificarsi, è per pochi per definizione - un dato in ampia contraddizione con la ricerca costante di crescite trimestrali di brand che si aspettano di vendere a miliardi di clienti ritenendo la propria esclusività.

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Quando le boutique di un brand europeo rappresentano un network sparso su cinque continenti, in effetti, è difficile immaginare una piccola produzione limitata affidata a un manipolo di artigiani. L’idea interessante del brand di Philo è l’idea di un’operazione contenuta e piccola: minore è il rischio e maggiore è la domanda, più alti saranno i margini. In tutto ciò il sibillino atteggiamento del brand neonato, che già si vuole posizionare nel più alto empireo dell’industria con i suoi prezzi degni del lusso più inarrivabile, crea da sé un’aura esclusiva. Certo, rimane vero che noi non sappiamo quanto è stato effettivamente prodotto: se esistono solo cinque modelli del doppiopetto in montone da oltre 12.000€ sarà semplice dichiararlo sold-out. Non di meno, anche quando fosse stato prodotto davvero pochissimo l’idea di un’operazione limitata, «secca e mortale» come si direbbe al Sud Italia, potrebbe rappresentare un antidoto (o comunque un buon compromesso) in un mondo di lusso eccessivamente commercializzato e che ha perso quel senso di autorialità che un tempo, invece, lo alimentava.

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Ma come sono gli abiti? Valgono il loro astronomico prezzo? Non avendoli visti e toccati, non si può davvero dire finché non li si indossa. Ma a giudicare dalle fotografie che noi e l’intera stampa hanno avuto a disposizione, paiono avere una costruzione assai più cerebrale di quelli di The Row, più eterei (ma non meno complessi) di quelli di Bottega e forse anche più avveniristici di quelli di Hermès. Qualche esempio: i polsini del trench in lana melange, tradizionalmente visibili sul lato esterno della manica sono ora spostati all’interno, la fascia che li chiude è interamente staccabile e non cucita e rivolta all’interno, trasformata in una sorta di decorazione che conserva la propria utilità; una sciarpa abbinata gli si può avvolgere intorno creando una silhouette ancora più aliena; la sagoma e le diverse chiusure (borchie e zip) di un blouson di pelle hanno un’abbondanza curvilinea quasi decadente, militaristica se non fosse per la cintura in basso che pende in avanti come una cintura senza passante; un cappotto doppio petto molto classico è per donna ma è stato chiaramente disegnato su misure maschili per creare quella deliziosa insouciance che hanno le donne che indossano un cappotto maschile troppo grande per loro. Altrove, la piega della manica di una giacca è rigida e definita come la pence di un pantalone, trasformando il braccio in un vero e proprio disegno dalle linee affilate. E come non amare la suprema malizia di un pantalone con zip sul retro della gamba che si sbottona fin su alla vita? Se Philo ha molti emuli oggi, tutti i suoi talentuosi discepoli, pochi sanno essere adorabilmente complicati come lei.

Tra i critici della collezione, c’è chi giudica troppo alti i prezzi per una collezione di lancio – probabilmente ignorando il fatto che nella moda è meglio scioccare il mercato con un prezzo alto che poi, subentrata l’abitudine, si rivelerà un significante di eccellenza assoluta. C'è anche chi lamenta l'assenza di storytelling del brand: questi clienti non si sono evidentemente accorti che numerosi statement di identità che i marchi pubblicano, con toni altisonanti usati per incensare la propria eccellenza, sono discorsi smaccatamente promozionali che spesso gettano più fumo negli occhi che altro. Il silenzio di Philo è indicativo: il prodotto parlerà, dopo tutto si parla di vestiti. Tra i critici della collezione c’è chi lamenta pure il fatto che i pezzi siano basici: a loro va ricordato invece che i pezzi sarebbero basici se ci fosse stata una sfilata, quando invece, presentati così, nell’ottica di un garde-robe componibile e liberamente interpolabile con altri pezzi dalle linee simili che sono già negli armadi delle falcoltose clienti, rappresentano le diverse articolazioni di un vocabolario quotidiano per le Shiv Roy di questo mondo. L’idea di evitare ogni ramificazione, vendere direttamente al cliente attraverso un canale univoco e con scorte limitate e presto esaurite è esattamente quell’esclusività, rarità, preziosità che il lusso vorrebbe rappresentare e ha così tante difficolta a fare. Phoebe Philo non è per tutti – e questo è precisamente il punto.