Gli Uffizi e l'arte degli influencer
Se la strategia funziona perché in Italia cultura e social media marketing sono ancora visti come mutualmente esclusivi?
21 Luglio 2020
Venerdì scorso, Chiara Ferragni ha visitato gli Uffizi di Firenze pubblicando sulla propria pagina Instagram una serie di post e di stories a fini promozionali che hanno scatenato l’immancabile polemica sulla legittimità dell’influencer marketing culturale. Una strategia che, per quanto riguarda gli Uffizi, sembra aver funzionato: i visitatori dello scorso weekend sono stati oltre 9.300, con un aumento del 27% nelle presenze dei giovani under 25 che sono stati 3600 nelle sole giornate che vanno da venerdì a domenica. Con le loro reazioni, media e pubblico hanno rinforzato ancora una volta lo stereotipo di una cultura elevata fatta di uomini in giacca e cravatta over 50, colletti inamidati e parole auliche e incomprensibili. Ma è proprio quello stereotipo che fa languire i musei italiani, che hanno invece bisogno di un nuovo pubblico giovane per essere in grado, anche economicamente, di migliorare la propria offerta. L’influencer marketing culturale non è svilimento o stravolgimento della cultura: è semplice comunicazione, solo pensata per un pubblico più giovane. Gli Uffizi poi possiedono una strategia social molto più vasta e profonda, che include l’istituzione di mostre e iniziative social sulla black presence nel Rinascimento e il lancio di contenuti educativi su piattaforme come Tik Tok.
Questo tipo di marketing, poi, può diventare vitale per musei grandi e piccoli che, con il momentaneo stop del turismo internazionale, è costretto ad attirare un pubblico italiano, provando anche a raggiungere un demographic più giovane. I numeri registrati dai musei (che, ricordiamolo, hanno bisogno di introiti come qualunque altra azienda di meno nobile vocazione) dimostrano non solo che l’influencer marketing culturale funziona, ma che è già una realtà ineludibile. La ferocia delle critiche rivolte alla Ferragni sembra piuttosto concentrarsi sul fatto che un’influencer si occupi di cultura visitando un museo – quasi a dire che il suo ruolo riguardi esclusivamente frivolezze, sfilate e aperitivi in giro per il mondo. Anche Chiara Ferragni, se vuole, può farsi una fotografia davanti a un quadro di Botticelli: la sua vita non si riduce alle foto del proprio figlio e alle campagne di moda. E se con uno dei suoi post la Ferragni vuole promuovere un'istituzione culturale come gli Uffizi, aiutandola concretamente, non si capisce come mai non possa farlo.
Sono molte le amministrazioni museali e regionali che hanno già di fatto pienamente abbracciato l'influencer marketing: qualche settimana fa Chiara Ferragni e Fedez visitarono i Musei Vaticani e la Cappella Sistina e, dopo essere stati agli Uffizi, i due hanno viaggiato fino in Puglia, dove Ferragni ha visitato (con relativi Instagram stories e post) la Basilica di Santa Caterina D’Alessandria in Galatina e il Museo Archeologico di Taranto. Quello di Ferragni e Fedez non è nemmeno un caso isolato. L’anno scorso, il video della canzone di Sfera Ebbasta, Fabri Fibra e Mahmood, Calipso, venne girato sulla terrazza panoramica del Castello di Baia, sede del Museo archeologico dei Campi Flegrei. Di recente, sempre Mahmood e Sfera Ebbasta hanno usato il Museo Egizio di Torino come location del video di Dorado.
Un tipo di promozione smart che, al di là di ogni idealismo, è necessaria specialmente considerato come il settore culturale italiano sembri incasellato in una categoria di (presunta) serietà che può essere pretenziosa o sentimentale fino alla dozzinalità ma mai apertamente commerciale. Basti pensare al nazionalpopolare Stanotte a Firenze di Alberto Angela con il suo penoso uso del CGI, le comparse travestite da carnevale e la venerabile Venere di Botticelli interpretata da Giusy Buscemi, ex-Miss Italia 2012, che recita sospirosamente una poesia di Lorenzo de' Medici al suono di un liuto. Nessuno ha battuto ciglio allora, ma un selfie della Ferragni causa indignazione.
Eike Schmidt è dunque un esempio di curatore particolarmente lungimirante che, in ragione dell’importanza e del ruolo-guida nel mondo dei musei di cui godono gli Uffizi, potrà magari in futuro essere considerato il precursore di una nuova maniera di divulgare la cultura, più digitalizzata e smart ma non per questo meno approndita e accademica. Il ruolo dei curatori è, dopo tutto, quello di far interagire i visitatori con la cultura in una maniera significativa, dando al patrimonio artistico nuovi angoli di lettura che siano corretti ma anche al passo coi tempi. E il mondo della moda, con il fenomeno del luxury streetwear, ha già dimostrato ampiamente il successo commerciale della fusione fra low e high. Come Schimdt ha giustamente detto in un’intervista con La Repubblica:
«Noi abbiamo una visione democratica del museo: le nostre collezioni appartengono a tutti, non solo a un’autoproclamata élite culturale, ma soprattutto alle giovani generazioni. […]Per questo è importante usare il loro linguaggio, intercettare la loro ironia e il loro potenziale creativo».