Chi erano i Paninari, gli hypebeast degli anni '80
Prima di Supreme, l'hype era Giacca Moncler e la cinta El Charro
06 Agosto 2019
Torniamo indietro agli anni ’80. La nazione, imbambolata davanti alla televisione, è in preda a edonismo sfrenato e grande voglia di disimpegno. Al cinema Tom Cruise pilota aerei e Michael J. Fox viaggia nel futuro. I nostri fratelli sognano di emulare Mark Landers e le nostre sorelle si vestono come Madonna in Cercasi Susan disperatamente con tanto di pizzi e orecchini a croce, mentre di noi giochiamo con la villa di Barbie e le Crystal Ball. Contemporaneamente a Milano, davanti “Al Panino” di Via Agnello si raduna una folla di ragazzi delle medie e del liceo, abbronzati e uniti da consumismo, vanità, gusto per gli eccessi e, soprattutto, un rigido codice di abbigliamento. Paolo Apice, sociologo del costume, descrive così il mood di quei giovani:
“Alla fine degli Anni 70 il centro di Milano era impraticabile, in piazza San Babila stavano quelli di destra, in piazza Santo Stefano quelli di sinistra e anche solo sbagliare un capo d’abbigliamento poteva essere pericoloso. Appena si allentò un po’ la tensione, i ragazzi cominciarono a creare nuovi punti d’incontro: accadde così che al bar Al Panino, in piazzetta Liberty, il sabato pomeriggio si ritrovassero i figli della buona borghesia cittadina, che magari si erano conosciuti a Courmayeur o a Madonna di Campiglio, a Santa Margherita o a Forte dei Marmi. Tutti con il mito dell’America e con pochissimo interesse per la politica. […] C’era voglia di colore, dopo il grigiore degli Anni Settanta, voglia di star fuori la sera senza rischiare le botte, il rifiuto di qualunque lettura ideologica: venivamo da anni in cui indossare un eskimo o un Baracuta era una scelta di campo, noi volevamo semplicemente fare un American Graffiti italiano negli Anni 80.”
I paninari, come li chiamerà un giornalista del Corriere della Sera, indossano giacche Moncler; jeans Levi’s o Armani, rigorosamente risvoltati sopra le caviglie per mostrare le calze Burlington; felpe Best Company, Stone Island o CP Company; polo Lacoste; t-shirt Mistral; abiti di Fiorucci o Trussardi; stivali Timberland o scarpe da barca. Completano il look cintura El Charro; occhiali Ray Ban; orologi Swatch; zaini Invicta e, per le ragazze, accessori e borse Naj Oleari e profumo Chanel.
Per Alberto Guerrini, fondatore di Gabber Eleganza, i paninari sono stati i primi hypebeast, “la prima sottocultura non legata alla musica o alla politica dei primi anni ‘80, molto rumorosa e colorata”. Esattamente come gli hypebeast che affollano i drop di Supreme ogni giovedì, i paninari avevano, infatti, la stessa maniacale ossessione per il marchio e il prezzo dei vestiti, lo stesso disprezzo per chi indossava capi falsi e lo stesso narcisismo comunitario. In un documentario sui paninari del 1986, girato a Milano, c’è una scena che replica in maniera pressoché identica i video di How Much Is Your Outfit: la giornalista chiede a un ragazzo di descrivere il suo look, e lui con uno sguardo tronfio e compiaciuto inizia a elencare ogni capo – dai calzini fino alla camicia – per aggiungere alla fine: «Vuoi sapere anche il prezzo?».
Le loro passerelle sono gli emergenti fast-food come il Burghy in Piazza San Babila, luogo dove spendere le giornate a “cuccare le sfitinzie” (aka "rimorchiare le ragazze") e a chiacchierare. I paninari seguivano una confusa ideologia legata al consumismo e al rifiuto dei canoni estetici tradizionali. Era l'ideologia edonistica figlia degli Stati Uniti del presidente Ronald Regan, che allevarono una generazione di yuppi il cui capofila era un certo Donald Trump. Per questo i paninari negavano ogni genere di impegno sociale e politico per rifiuto degli anni Settanta costellati dal terrorismo e dallo stragismo politico, ricercavano la leggerezza, volevano godersi la stessa vita che veniva dipinta nei film hollywoodiani sugli yuppie e nelle canzoni dei Duran Duran.
Il disimpegno politico e l'estetica edonistica facevano emergere un maschilismo abbastanza sfacciato e impunto: le sfitinzie erano praticamente considerate poco più che accessori dai paninari, usavano la stessa attitudine di machismo ironico che sarebbe rimasta negli anni '90 e nei cinepanettoni.
Dal centro di Milano al resto d’Italia il passo è breve e, in poco tempo, il fenomeno diventa globale, complice il film cult Sposerò Simon Le Bon, tratto dall’omonimo libro della sedicenne Clizia Gurrado e la parodia del paninaro tipo del comico Enzo Braschi all’interno della trasmissione di Canale 5 Drive In che contribuisce anche a diffondere lo slang dei paninari.
Con l'espandersi del trend paninaro Il loro gergo è modellato sul linguaggio dei giovani milanesi e mescola abbreviazioni (es. “Le Timba”, “Facciamo il week a Curma”), accrescitivi (es. “Panozzo” un modo per riferirsi ad un altro paninaro), ad un inglese spesso maccheronico (es. “Very arrapation” cioè sexy; “Arrivano i ciàina”, una deformazione dell’inglese “chinese”, usato dai paninari per indicare un militante di sinistra o qualcuno appartenente ai gruppi antagonisti).
La spinta di popolarità definitiva arriva grazie ai Pet Shop Boys che nel 1986 incidono il singolo Paninaro e portano la moda oltre confine, incoronando i paninari come la prima sottocultura made in italy internazionale.
Se l’inno musicale di questo gruppo di ragazzi è Wild Boys dei Duran Duran, la loro bibbia sono Paninaro e la sua versione femminile, New Preppy. Le due riviste nascono da un’idea di Renzo Barbieri, fondatore della casa editrice Edifumetto famosa per i pocket erotici come Zora, Sukia e Lando, che, intuendo il potenziale economico della sottocultura, lancia nel 1986 Paninaro e, qualche mese dopo, New Preppy.
Parte della collana I Nuovi Galli, i due progetti hanno contenuti speculari e sono caratterizzati da un mix di fumetti, articoli e rubriche, un format da subito replicato da una serie di magazine simili come Cucador, Wild Boys, Sfitty, Zippo Panino. Le altre pagine ospitano oroscopo, posta, test, giochi, consigli di stile, articoli sulle star del momento, hit parade, news, foto di street style e di paninari in giro per l’Italia e pubblicità di brand come El Campero o Uniform Jeans. Strettamente simbiotiche con il fenomeno paninaro, tutte queste riviste scompaiono nello stesso periodo della sottocultura, verso la fine degli anni ’80, persino Paninaro e New Preppy che, nonostante il tentativo di cambiare la grafica da illustrazioni a fotografie di divi come Matt Dillon e Jovanotti, chiudono nel 1989.
La fine del decennio segna anche la scomparsa del movimento paninaro. Dopo aver toccato i massimi vertici di espansione e popolarità, galli e sfitinzie iniziano a scomparire, soffocati da altre sottoculture che riflettono la fine di un’epoca consumata tra edonismo e superficialità. La bolla di positività e voglia di leggerezza, una fase di consumismo paragonabile solo a quella verificatasi durante il boom economico, è scoppiata quasi all’improvviso, così come era nata, lasciando lo spazio agli anni ’90 .