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Il Grande Cretto di Burri

La potenza salvifica dell’arte

Il Grande Cretto di Burri La  potenza salvifica dell’arte

La notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968 un violento terremoto di magnitudo 6.4 colpì la Valle del Belìce, una vasta area della Sicilia orientale compresa tra le province di Trapani, Agrigento e Palermo. La terra ingoia 296 persone, ferisce migliaia di persone e rade al suolo l’intero paese di Gibellina. Lentamente, tra grandi appalti imposti dalle alte sfere e infiltrazioni mafiose, partono i lavori di ricostruzione e il nuovo nucleo della cittadina risorge a circa 20 chilometri dal suo sito originale. Il risultato è a tal punto desolante ed amorfo da spingere l’allora sindaco, Ludovico Corrao, a chiedere l’intervento del mondo dell’arte, nel tentativo di rendere dignità alla propria terra.

Gli rispondono decine di artisti, letterati e architetti di fama internazionale come Mario Schifano, Andrea Cascella, Pietro Consagra, Mimmo Paladino, Franco Purini, Arnaldo Pomodoro, Carla Accardi, Mimmo Rotella e Alberto Burri.

"Quando andai a visitare il posto, in Sicilia, il paese nuovo era stato quasi ultimato ed era pieno di opere. Qui non ci faccio niente di sicuro, dissi subito, andiamo a vedere dove sorgeva il vecchio paese." - racconta anni dopo il famoso umbro, ricordando l’impatto con l’area terremotata - "Era quasi a venti chilometri. Ne rimasi veramente colpito. Mi veniva quasi da piangere e subito mi venne l'idea: ecco, io qui sento che potrei fare qualcosa. Io farei così: compattiamo le macerie che tanto sono un problema per tutti, le armiamo per bene, e con il cemento facciamo un immenso cretto bianco, così che resti perenne ricordo di quest'avvenimento."

Nasce in questo modo un monumento gigantesco, un enorme lastra di cemento di 29 acri che ripercorre le vie e vicoli del centro storico, con blocchi alti circa un metro e sessanta e ogni fenditura larga dai due ai tre metri, dimensioni che rendono quest’opera di land art una delle più estese al mondo. Se, visto dall’alto, il Grande Cretto appare come un labirinto di cemento che abbraccia il fianco della collina, nell’idea di Burri doveva essere una sorta di congelamento della memoria storica di un paese, l’incarnazione di un profondo dramma umano e un legame artistico tra il vecchio e il nuovo, tra il passato ed il presente. Purtroppo, come racconta il critico d’arte Philippe Daverio 

"L’intero progetto è risultato il piano più cervellotico e astratto che sia mai stato applicato dopo un terremoto; nacque l’ambizione di reinventare il paese in modo utopistico, ma non ha funzionato perché quelle opere d’arte furono calate dall’alto senza nessuna condivisione da parte della comunità di pastori e contadini, quella che era Gibellina, che non le comprese allora e forse non le comprende oggi". “Cosa sarebbe l’uomo senza il soffio rigeneratore dell’arte?” si legge impresso sulla facciata di un edificio abbandonato di fronte al Cretto e sia l’opera stessa, sia le reazioni ad essa, ci spingono a chiederlo a gran voce.