Te lo ricordi il 2016?
L'anno che ha riscritto il rap in Italia raccontato dal documentario di Esse Magazine
26 Settembre 2022
Quando fai qualcosa di grosso ti conoscono tutti, ti amano e ti odiano. Quando fai qualcosa di grosso succede che vendi, che cambi il sistema e chi lo dirige diventi tu. Poi accade che parlano di te nei libri, in tv, sui social, e chiamano Jake La Furia, un peso massimo del rap italiano, a fare da narratore nel tuo documentario. Ma l'"io" non esiste in questa storia, esiste il "noi". Perché insieme si è cresciuti e diventati grandi, insieme ci si è preso tutto. Insieme, Sfera, Tedua, Izi, Rkomi, Ghali, Tony, Wayne, Side, Pyrex, Enzo, tutti loro e tanti altri hanno riscritto le regole del rap game. «Non poteva esserci 2016 senza questo senso di unione, senza questa volontà di fare squadra» mi rivela Alessandro Quagliata, caporedattore di Esse Magazine, che ha prodotto "2016 - L'anno della Trap". Loro sono la nuova scuola, che poi è quella attuale, che adesso insegna alle nuove leve, e che dallo scorso 16 settembre è raccontata in streaming e in televisione. È questo quello che succede quando fondi la trap in Italia nel 2016.
Io c'ero nel 2016, me lo ricordo. Ce l'ho presente l'entusiasmo del momento, quando a quindici anni, nel pieno della mia adolescenza, andavamo pazzi per questa musica ritenuta becera, ridicola, senza senso. Nella mia classe una ragazza cantava sempre le canzoni della Dark Polo Gang, e all'inizio non mi spiegavo il perché. «Questi non chiudono le rime, parlano solo di cazzate» era la mia argomentazione e quella di tanti come me. Poi è avvenuta una vera e propria conversione, qualcosa che ha coinvolto tutti quelli che la pensavano così in giro per l'Italia. Era inevitabile che la trap ci prendesse tutti. Lo sapeva Ghali, che è stato il primo a leggere nel domani e uscire su Spotify con i suoi singoli. "Ninna Nanna" e "Pizza Kebab" - che canto tuttora - forse detengono ancora oggi qualche record per gli streaming, e non è qualcosa che stupirebbe nessuno.
A stupirci invece è stato il sound della trap nel 2016, qualcosa di fresco e nuovo, anche atipico, ma soprattutto internazionale. Quando è uscito Santeria di Marracash e Guè, due veterani della scena, abbiamo capito tutti subito che ci trovavamo di fronte a un classico istantaneo, qualcosa di evidentemente invaso da influenze e idee giovani, ancora oscure al tipico suono italiano. Non sto dicendo che il rap prima del 2016 fosse noioso: era semplicemente un altro tipo di rap. «Si può sicuramente dire che la trap abbia portato una ventata d’aria fresca ed internazionale sul panorama italiano, nel 2016 per la prima volta l’Italia iniziava a non essere più “in ritardo” di qualche anno rispetto al sound estero, ma si rimetteva perfettamente al passo con i tempi» puntualizza Davide Vicari, che di 2016 - L'anno della Trap è il regista. Come mi conferma subito dopo, a smuovere tutto, a cominciare la rivoluzione, ci hanno pensato quelli che sono venuti sei, sette anni fa. Charlie Charles e Sick Luke sono stati gli architetti del nuovo sound, i grandi burattinai; XDVR e Crack Musica i capostipiti del genere. Poi c'è Orange County, l'alternativa, oppure Dasein Sollen, la gemma nascosta in piena vista. Sfera Ebbasta aveva visto bene in “Rapina”. È un pezzo del 2015, ma il 2016 è tanto mitico da meritare un prologo.
Da Genova a Milano, da Roma a Napoli, la trap italiana è stata immediatamente rivelatoria, di rottura per l'industria. Per la questione degli streaming, ma anche per l'influenza portata alla cultura popolare. Perché se oggi seguo la moda è perché sentivo Tony Effe parlare di Fendi e Gucci e perché non è stato normale che tutti abbiano iniziato a entrare in fissa con lo streetwear proprio mentre un nuovo panorama rap andava formandosi vestito firmato dalla testa ai piedi. «Il fattore principale fu l’avvento delle Instagram Stories perché tutti gli adolescenti d’Italia si ritrovarono immersi nelle vite dei protagonisti del movimento, sapevamo ogni giorno i loro outfit, sentivamo il loro slang» aggiunge Davide, sottolineando il valore che i rapper della nuova scuola hanno fin da subito assegnato alla loro immagine. Tutto era atto a dare credibilità, rendersi veri agli occhi dei giovani, diventare tutto ciò che loro, i fan, volevano essere: ragazzi dal successo immediato, capaci di riscattarsi dopo un passato tribolato.
Che al 2016 venisse dedicato un documentario era doveroso. Troppo grande l'importanza di quell'anno, troppo esoso il bacino di fan che avevano bisogno di riassaporare un anno intero della loro vita, per non pensare a chi nel 2016 era ancora troppo giovane e quelle storie le ha solo sentite raccontare. «È difficile nel momento in cui stai vivendo una cosa avere la percezione che sta succedendo qualcosa di storico e meritevole di un documentario perché ovviamente manca la prospettiva storica. Però che tutto fosse nuovo sì, sicuramente. C’era tanta euforia» conclude Alessandro, che conferma i miei pensieri a riguardo: ci eravamo tutti accorti che stava succedendo qualcosa di importante e che dovevamo essere lì per viverlo.
Le felpe Thrasher, gli occhiali da sole Saint Laurent - che poi compravamo fake su Amazon e Wish -, gli anelli e le collane, le Air Force 1 immacolate o distrutte, non faceva differenza, bastava che ci fossero. Eravamo felici e, per una volta, lo sapevamo davvero. Cantavamo “Chic” e “Wasabi Freestyle” sotto l'ombrellone, mettevamo una bandana rossa fra i capelli per imitare il nostro nuovo rapper preferito. Proprio con le Instagram Stories abbiamo documentato tanti momenti di quel periodo, per immortalare in quindici secondi qualcosa che in quei quindici secondi non poteva neanche essere introdotto, che solo un documentario poteva sublimare davvero. Ora ce l'abbiamo, da guardare come un album dei ricordi, per sorridere e magari emozionarsi. E poi anche per riascoltare tutta la musica di quell'anno irripetibile, che, molto semplicemente, non passerà mai.