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La Soho House non è più quella di una volta

Quando il business vince sulla community

La Soho House non è più quella di una volta Quando il business vince sulla community

La scorsa settimana, The Guardian raccontava di una schermaglia tra Soho House, il celeberrimo club per sottoscrizione con sedi in tutto il mondo, e Glasshouse Research, società di analisi nata per «smascherare le aziende impegnate in una contabilità fraudolenta a proprio vantaggio». Lo scorso mese, Glasshouse ha pubblicato uno studio lungo 31 pagine in cui si diceva che «Soho House, un'azienda con un modello di business non funzionante e una contabilità pessima, si trova di fronte a gravi ostacoli per quanto riguarda la sua futura redditività come società pubblica. La persistente mancanza di profitti e l'aumento del debito mettono la società in una situazione precaria in cui dovrà continuare a scaricare azioni sugli investitori con il passare del tempo». Tutte nozioni che Soho House ha rigettato, dicendo inizialmente che avrebbe presentato i risultati finanziari e la guidance del 2024 il 6 marzo per poi posporre la presentazione al 15 marzo. A prescindere dalle considerazioni monetarie, comunque, l’esistenza stessa di una contesa è un cattivo segno – così lo ha interpretato The Guardian che osservando nella sezione commenti di @sohohousememes ha anche intercettato diversi malumori tra gli utenti online: ritardi nei servizi, voci di abuso di sostanze, lamentele sui menu e l’insufficienza dello staff, lagnanze sulla mancata esclusività e sul sovraffollamento di palestre e spa. Per vederci più chiaro ci siamo rivolti a Nadine Choe, founder della newsletter The Stanza, ed esperta di private equity immobiliare oltre che ex-membro del club che ci ha fornito una prospettiva più business oriented sulla vicenda. «Non accetterei consigli di investimento da Glasshouse», ha detto Choe, «ma credo che il modello di Soho House non funzioni per un club di soci. Soho House esiste da oltre 30 anni, eppure non è ancora riuscita a raggiungere una redditività sostenibile».

Ma perché tanti problemi per un semplice club privato? «Anche se Soho House è rimasta "cool" per diversi anni», ci ha spiegato Choe, «dato che l'azienda ha dovuto espandere le adesioni per finanziare operazioni sostenute dai mercati pubblici e dagli investitori istituzionali, c'è un processo di selezione meno rigoroso e quindi non è più "cool", chiunque può essere accettato come membro».  Secondo Choe, «Soho House si è trasformata in una società immobiliare, il che contraddice la sua proposta di valore originaria: una comunità per individui che condividono le stesse idee nelle industrie creative», trovandosi dunque di fronte a due ordini di problemi: il primo sarebbe quello della loro identitàSono una vera "comunità" o un'azienda di servizi?» si domanda Choe) dato che «quando hanno iniziato a offrire servizi come la ristorazione per 18 ore al giorno, la spa, la palestra, l'hotel e il co-working, forse non si sono resi conto che per finanziare queste operazioni serve vendere più iscrizioni sacrificando il senso originario dell’essere un club per soli membri»; il secondo riguarda invece il sovraffollamento delle sedi esistenti che il management ha provato a sanare aprendo nuove location che però «non fa altro che aggravare il problema, nel senso che non risolve il problema del costo-opportunità di dover vendere più iscrizioni per gestire l'attività. Forse una soluzione migliore sarebbe quella di aumentare le quote d’iscrizione e accettare meno soci e fare pulizia tra gli attuali iscritti». 

L’andamento dell’azienda, come capita con i business che hanno parzialmente perso di vista il proprio scopo originale, è stata cambiato da due fattori: il primo è stato lo scarto tra la vision del founder Nick Jones e quella dell’investitore di maggioranza Ron Burkle entrato nella società nel lontano 2012 «per rimborsare il debito esistente in bilancio, migliorare operatività e margini e finanziare l'espansione globale»; la seconda riguarda i diversi servizi forniti dal club che «sono attività separate e quindi cambiano le strutture di incentivo dell'attività. Tutto si riduce a sacrificare l'integrità del club alla gestione dei servizi. Soho House affitta molti dei suoi spazi: quando si gestiscono tutti questi servizi, gran parte della metratura è destinata ai “retrobottega", che diventano costosi nelle città in cui operano». Per Choe il nodo del problema rimane la quotazione in borsa dato che «un club privato di soci che è una società quotata in borsa è un ossimoro. Se avessero scelto di rimanere un puro club di soci invece di espandersi in diverse altre attività, forse non avrebbero perso il loro fattore di esclusività. Ma non sarebbe un'azienda grande come lo è oggi». Proseguendo, Choe è scesa in dettagli più personali: «Quando mi sono iscritta, prima della quotazione, era un piacere andarci […]. Direi che la quotazione è stato il punto di svolta. Si è sovraffollato di cattivi ospiti - maleducati, irrispettosi nei confronti del personale e degli altri membri e privi di cortesia negli spazi pubblici, come il bagno e le aree del bar. Anche il servizio è diventato un problema a causa del poco staff rispetto ai tanti ospiti», fino a quando lei stessa non ha cancellato l’iscrizione l’anno scorso.

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La questione della Soho House, però, va a toccare lo status stesso del club privato in quanto tale. «La vera sfida per un club è creare una comunità autentica basata su una serie di valori condivisi e promuovere la costruzione di relazioni reali», spiega Choe. «Non si tratta di creare un altro ristorante recintato con annesso flusso di entrate ricorrenti». E considerato il movimento di imprenditori interessati al format del club, «sono certa che presto emergerà una vera e propria concorrenza per tutti gli operatori storici, non solo Soho House».