Charles De Vilmorin e il mito dell’enfant prodige
La moda ha un problema di narrativa
24 Aprile 2023
Nella giornata di oggi è giunta la notizia che il contratto di Charles de Vilmorin da Rochas non è stato rinnovato dopo due anni di direzione creativa. Anche se certamente dispiace per il giovane designer, la notizia non giunge certo come una sorpresa: non solo di Rochas, brand posseduto da Interparfums, avevamo quasi dimenticato l’esistenza (persino il nome del brand si confondeva con quello della più brava Simone Rocha) ma il rilancio capeggiato da Vilmorin era ampiamente dead on arrival – tanto che l’anno scorso persino il clementissimo Vogue, che non scrive una recensione negativa dai tempi de Il Grande Gatsby, aveva bocciato la collezione SS23 di Rochas definendo il designer come «la vittima di un errore d’assunzione» dicendo che «sembra quasi crudele far ricadere il peso della casa di Rochas sulle spalle di un giovane uomo che, in modo perfettamente comprensibile, non ha la formazione e il savoir faire necessari per sostenerlo». Le critiche successive erano in effetti più clementi – ma quelle sono destinate al pubblico: dietro le quinte il giovane Vilmorin non è incensato come potrebbe sembrare dai profili agiografici che ai tempi della sua nomina si scrissero su di lui, definendolo come l’enfant prodige della couture francese, il petit prince de la mode, il nuovo Yves Saint Laurent, il giovanissimo fenomeno pupillo di Gaultier. Il problema, comunque, non sta in Vilmorin, che come designer deve essere di certo dotato per essere arrivato al LVMH Prize e per essere finito in ogni pubblicazione di settore, ma nella maniera acritica e avventata in cui l’industria della moda ne ha strombazzato il talento, quasi fosse ansiosa di trovare un nuovo volto da adorare, una nuova stella da indicare col dito e, in breve, una nuova icona. C’è solo un problema: le icone non nascono in vitro. E quello dell’enfant prodige è un mito.
Anche la storia dell’enfant prodige della moda per eccellenza, Yves Saint Laurent, nominato successore di Dior a soli 21 anni non è tutta rose e fiori: il giovanissimo designer si giocò il lavoro con la collezione Haute Couture FW58 di Dior – un fiasco così grosso che il designer non riuscì a evitare la coscrizione nell’esercito e l’ospedale militare. Oggi questi e altri inciampi nella carriera del grande designer sono stati storicamente revisionati come momenti di genialità incompresi (pensiamo alla collezione SS71, al disastroso periodo di fine anni ’80 quando Bill Cunnigham parlò di «patetico declino», alla quasi disintegrazione che il brand rischiava nei primi anni ’90) dato che è complicato ammettere che la creatività di un designer possa avere nel corso di anni esiti alterni senza che questo lo qualifichi una volta per tutte come bravo o incompetente. Il problema, ancora una volta, non sta nei designer ma in chi ne parla – creare aspettative significa solo gonfiare oltre misura potenziali delusioni ma con il rischio di portare anzitempo alcuni talenti alla ribalta internazionale, spingendo il pubblico e la stampa stessa a crearsene impressioni affrettate e parziali. Tutti amano l’arrivo di un giovane genio, ma non tanti amano la sua permanenza. Tanto più se il giovane genio in questione, come Vilmorin, non è esattamente venuto su dal nulla ma, come un enorme numero di persone nell’industria, proviene da una ricca famiglia (i Vilmorin hanno creato una delle più ampie industrie di distribuzione di sementi in Francia, rimasta nelle mani della famiglia per due secoli, dal 1743 al 1972) e ha un padre che lavora come direttore finanziario di un famoso brand di cui nessuno fa il nome e, insomma, non è certamente privo di importanti connessioni e risorse. Il rischio è quello di creare una specie di bolla speculativa culturale: pubblicamente si grida al prodigio, privatamente si procede alla stroncatura.
I have no idea who this is… pic.twitter.com/1xE70tYpnp
— Ryan Lowe (@ryvnlovve) April 24, 2023
Ma il successo prefabbricato suscita risentimento nel pubblico e nei commentatori – è il caso di Vilmorin, contro cui alcuni si accaniscono, pur senza riconoscergli colpe, per dargli in sostanza del raccomandato. È il caso di tanti altri designer, di solito quelli la cui ascesa è stata più meteorica, ma soprattutto è il caso di qualunque enfant prodige che un lato del pubblico accoglie e che l’altro lato attende sadicamente al varco. Il problema è questa narrazione binaria fatta di successi totali e totali fallimenti fa male a tutti: al pubblico che si trova costretto a dividersi tra sostenitori e oppositori, alla stampa che invece si trova costretta a semplificare e generalizzare discorsi che meriterebbero più sfumature e, infine, agli enfant prodige stessi che, bollati con lo status di “genio”, non ricevono un autentico riscontro critico o tutoraggio attraverso cui crescere artisticamente (Dio non voglia che un creativo riceva un input o un suggerimento o che la sua vision sia messa in dubbio anche in minima parte) e non possono concedersi di abbassare il tiro, rischiando da un lato di perdere la faccia o dall’altro di finire in burnout.
@rochas_official Few words from our guests at the Spring Summer 2023 show, taking place in the iconic venue, Les Folies Bergère in Paris #pfw #rochas #ss23 #rochasparis #rochasss23 #springsummer23 #charlesdevilmorin Thanks to our amazing guests @paloma_hugobardin @daphneburki @carolinehxr @sulivan son original - Rochas Paris
C’è in breve necessità di narrazioni più articolate – narrazioni che una audience come quella della moda, così coinvolta nel mondo della cultura, può sicuramente gestire. Chiunque sia stato a una sfilata sa benissimo che appena ci alza dalle sedie, a show finito, tutti hanno già in testa opinioni ben precise e taglienti sulla collezione appena vista – tutte inevitabilmente tradotte in recensioni che possono solo essere “a favore” e “contro”. Quando Alessandro Michele era da Gucci, poniamo, pochissimi osavano mettere in dubbio la sua capacità e chi amava le sue collezioni le amava in blocco, senza azzardarsi a dire che un look era riuscito e un altro meno, senza presentare sfumature o gradazioni nel giudizio. Eppure se lo status artistico della moda va preservato non si può continuare a dividere i creativi in prodigi e impostori – così come non ha senso promuovere chi è inesperto, precludendogli magari la possibilità di fare importanti periodi di apprendistato in grado di temperare l’esuberanza a volte acerba e dilettantistica degli esordienti. I designer più rispettati di oggi, dopo tutto, hanno iniziato a lavorare da giovani ma hanno trovato la fama in età matura. La narrazione della moda, però, spesso passa attraverso alcune grandi ipocrisie collettive su cui nessuno fiata finché non sono finite, limitandosi a commentare sui social un liberatorio «Era ora!» quando un annuncio viene dato e non c’è più rischio di essere banditi da show ed eventi. Ma in una moda così preoccupata di lasciare buone impressioni nessuno vince, tranne le buone maniere, anche se a un certo punto anche sulle migliori commedie cala il sipario e gli applausi in platea diventano disprezzo nel tempo in cui il pubblico è arrivato all’uscita della sala. Non farebbe bene a tutti parlare con più cautela e placida sincerità?