Guida allo stile dei grandi cantautori italiani
Dalla C.P. Company di Dalla all'estetica disco di Alan Sorrenti
02 Febbraio 2024
Moda e musica hanno sempre viaggiato su binari paralleli, in un rapporto di influenza reciproca. I movimenti estetici underground assieme all’alta moda hanno spesso saputo ispirare l’estetica di artisti che, a loro volta, creano tendenze estetiche che si ripercuotono sullo streetwear. Se in passato erano le copertine dei dischi o le rare apparizioni TV dei cantanti ad ispirare l’abbigliamento dei loro fan, oggi, in maniera molto più liquida e voyeuristica, i social hanno aperto finestre quotidiane sull’abbigliamento dei musicisti. Alcune cose, però, non cambiano mai. Se oggi artisti del calibro di Slowthai e Drake sono trendsetter con i loro endorsement di C.P. Company e Stone Island, analogamente, negli anni ‘80, un pingue, eccentrico e geniale cantautore bolognese inaugura questo trend. Oltre a Lucio Dalla, l’intera scena cantautorale italiana degli anni ‘70 e ‘80 ha saputo cogliere, tanto nei testi quanto nell’estetica, l’immaginario dell’Italia del tempo, influenzando e a sua facendosi influenzare da esso.
Lucio Dalla e C.P. Company
Tra il 1977 e il 1980, grazie a una tripletta di album perfetti ed alla fama consegnatagli dal film Borotalco, Lucio Dalla è un’icona pop e di stile. Addirittura, i ragazzi chiedono alle loro madri di confezionare a maglia berrette sullo stile di quelle indossate dal bolognese. Pur non incontrando i canoni convenzionali del testimonial, Dalla diventa endorser di C.P. Company. È la grande amicizia con lo stilista Massimo Osti, che rimane affascinato dalla personalità vulcanica del cantautore, a sancire l’inizio di una longeva collaborazione.
Nell’estate del 1979 C.P. Company confeziona una bellissima t-shirt per Banana Republic, tour fondamentale per la musica italiana e con cui il Belpaese sembra, almeno simbolicamente, sancire l’inizio della distensione post-Anni di Piombo. Negli anni Dalla verrà spesso immortalato in capi C.P. e Stone Island, tra knitwear, giacche a vento e utility vest che dimostrano le pionieristiche intuizioni di Osti. Nel 1989, all’apice del trend dei due brand il cantautore sarà addirittura protagonista della copertina del magazine C.P. Company. Non è dunque un caso che quest’anno, in occasione del cinquantesimo anniversario dalla nascita del brand, C.P. Company abbia proposto una capsule collection in collaborazione con la Fondazione Lucio Dalla.
Guccini, Armywear e Contestazione
Negli anni precedenti il legame con C.P. Company, Dalla ha avuto un’interessante carriera vicina agli ambienti underground del tempo. Sono gli anni Sessanta ed il look del cantautore è molto vicino allo stile casual dei beatnik statunitensi e dei pacifisti antinuclearisti inglesi del CND. Uno stile definito hobo, cioè da senzatetto, in quanto risultava sorprendentemente informale per i tempi. Uno stile fatto di pantaloni corduroy, dolcevita, camicie sportive button down o in flanella, coppole e baschi che, tra gli altri, influenza, anche sul piano ideologico, Luigi Tenco.
Questo stile viene presto adottato, anche in Italia, da molti studenti che, ieri come oggi, esercitano la loro influenza sullo spirito estetico del tempo. Sono gli anni della contestazione, dove manifestazioni politiche e scontri armati diventano la normalità. L’armywear, con significato provocatoriamente antimilitarista, si diffonde a macchia d’olio, anche grazie alla facile reperibilità. Molto comune è l’uso delle camicie militari con spalline. Tenco ne è capostipite nella pellicola di Luciano Salce La Cuccagna, in cui interpreta il ruolo, quasi autobiografico, di un cantautore bohemien e pacifista. Negli anni questo capo, grazie all’uso da parte di cantautori quali Fabrizio De Andrè, Edoardo Bennato, Ron e Franco Battiato, entra progressivamente a fare parte del casualwear italiano, influenzando molti giovani che lo adatteranno anche in contesti underground, come nella scena post-punk.
L’armywear diventa, così, un esempio di come necessità pratiche - per altro ricorrenti, dall’estetica dei black bloc a quella dei BLM - e legate, anche economicamente, alla moda vintage possano contribuire a definire fenomeni estetici generazionali. Ne sono esempi le field jacket dell’esercito italiano – versione nostrana della celebre M-65 jacket della US Army – che spopola tanto nelle curve degli stadi quanto nelle manifestazioni politiche, e l’eskimo. È proprio quest’ultimo a diventare, soprattutto grazie a Francesco Guccini, emblema del cantautore politico, in uno strettissimo rapporto tra pubblico ed artista suggellato soprattutto attraverso la condivisione di capi d’abbigliamento.
De André e il knitwear
Essendo il cantautorato un genere nato negli ambiti del folk e caratterizzato da una forte fanbase di studenti e intellettuali, ha sempre schivato l’opulenza della moda, anticipando molto del casualwear degli anni a venire. Palcoscenici per eccellenza in cui il cantautorato del tempo si fa guardare ed a sua volta influenza il linguaggio dello streetwear sono gli studi RAI di varietà e programmi come Discoring e la Radio Svizzera Italiana. Nei concerti a colori ospitati dall’RSI tra 1981 e 1982 si vedono un sobrio Endrigo che cantando senza cravatta svecchia la sua immagine al pari di come i sintetizzatori rinnovano i suoi classici, e Roberto Vecchioni in sgargiante maglione girocollo rosa. Come a suggerire che il focus della narrazione cantautorale è insita nelle parole più che nei vezzi estetici, il knitwear domina.
Che siano quelli slim fit dei Settanta abbinati a camice da colletti vistosi, o quelli baggy a trame fantasia stile Missoni, pullover e cardigan sono stati per anni dei classici degli artisti pop italiani. Oltre a Bruno Lauzi, Tenco, Battisti e Guccini, De André è tra quelli che nella sua lunga carriera ne fa maggior uso, in un’evoluzione di tagli che seguono quelli della sua musica: dapprima più asciutta, poi colorata e folkloristica con Creuza de Ma. Non è certo un caso che il recente revival del cantautorato anni ‘80, ci abbia fatto assistere ad una pletora di artisti - da Calcutta a Fulminacci, passando per Giorgio Poi e Galeffi - indossare questo tipo di maglieria, sia vintage che non. Perfetto per look sportivi, il knitwear trova un partner ideale nei lunghi trench color sabbia che diventano un must del periodo, dai film polizieschi alla copertina di Una Donna per Amico di Battisti, icona di italianità che, ironia della sorte, è stata realizzata a Londra.
Lucio Battisti e il foulard
Il vero trademark di Battisti, almeno nei primi anni di carriera, è però il foulard. Derivato dalla moda psichedelica del periodo, l’uso del foulard si estende sia al menswear che al womenswear verso la fine degli anni ‘60 diventando un accessorio da usare tanto con gli abiti in sostituzione della cravatta che con l’abbigliamento casual. Il foulard dimostra come cluster diversi spesso dialoghino involontariamente tra di loro, influenzandosi a vicenda ed appropriandosi di elementi estetici che diventano trasversali a più scene e gruppi sociali.
Denim, Suede e Sportswear
A suggellare il rapporto privilegiato tra molti cantautori e moda casual c’è, senza dubbio, l’esplosione del denim che a partire dagli anni ’70 diventa un caposaldo della cultura giovanile, sia alternativa che non. Dal De André degli ’80 che spesso si mostra in pubblico con camicie di jeans sotto cui si intravede l’italianissima maglietta della salute bianca, ad Antonello Venditti o ai musicisti di Banana Republic che più volte sfoggiano capi in denim o comunque ascritti all’estetica trucker della West Coast americana; come giubbotti in velluto, montoni, cappelli da baseball o da cowboy che fanno da eco alla ‘Buffalo Bill’ di De Gregori.
Dopotutto, con il passare degli anni, il cantautorato si fa sempre più pop a discapito dell’impegno politico, pop come lo sportswear che verso la fine dei Settanta assume una nuova dimensione nell’estetica urbana sotto l’influenza della campus fashion statunitense. Lucio Dalla, grande amante dello sport, viene più volte immortalato con una serie di divise tra cui quella della Virtus Bologna, dei Chicago Cubs, e dello Spring Valley, mentre nelle riprese del docufilm Banana Republic De Gregori viene ripreso con un cap dei Cubs
Califano, tra motociclette e sartorie
Anche il Califfo era un estimatore del double denim, spesso abbinato a stivali in pelle e occhiali da sole con montature in stile aviator vicine ai look del tardo Elvis, di Tony Joe White o di Robert Redford. Outfit consoni alle corse in motocicletta, con i jeans a stringere i serbatoi roventi e le camicie rigorosamente sbottonate sul petto, dove immancabile è l’ostensione di monili e rosari – un altro must del tempo che coinvolge anche l’insospettabile Gino Paoli.
Califano, oltre ad essere una penna sensibile, era però anche un playboy ed un esteta, lontano dalla canzone come strumento politico. La sua attitudine si riflette in un’immagine elegante anche nell’ambito del casualwear. Spesso immortalato fuori da discoteche e night, il Califfo sfoggia look propri dell’estetica neo-Gatsby e neo-gangster che, sotto l’influenza anche della Black music del tempo, ha preso piede nella haute couture. Abiti dai colori candidi e dai tagli slanciati, con pantaloni scampanati, giacche dai revers ampi e scarpe bicolori in stile Roaring Twenties. Se il Califfo ne è l’epitome nella pellicola Gardenia del 1978, anche Julio Iglesias e, in parte, Venditti e Dalla si lasciano sedurre da questo stile. Al contrario, l’uso degli abiti da parte di Franco Battiato è più dissacratorio e caratterizzato dalla ricerca di un look volutamente quotidiano, da impiegato o turista mediorientale, e caratterizzato da toni grigi e bruni. Abbinato ad un codino, alla combo sandali con calzini, ed ad una sedia a dondolo, il look di Battiato nei primi ‘80 è tanto eclettico e spirituale quanto lo è la sua musica.
Carella, Sorrenti e l’estetica disco
Questi tagli morbidi e le loro palette off-white nati sull’asse Pacifico tra Miami e Tokyo, si diffondono anche nello stivale andando a esercitare un’influenza sui locali in cui si sta affermando la disco music. Ancora una volta, un fenomeno di youth culture nato nel contesto dei club, flirta con la canzone d’autore, venendo appropriato da artisti pop. Il sagace Enzo Carella si mostra con outfit ricchi di camicie tropicali sospesi tra la costa ovest degli Stati Uniti e le discoteche della riviera Romagnola, così come Lucio Battisti che nel 1980 si presenta a cantare Amore Mio Di Provincia alla tivù tedesca in pantaloni a zampa bianchi ed esotico camiciotto rosa. Similmente Alan Sorrenti, che arriva da un trascorso progressive e cantautorale, grazie alla disco music trova una strada verso le classifiche ed un nuovo guardaroba. Sorrenti fa di abiti morbidi con pinces in cui dominano il total white e le tinte pastello la sua nuova uniforme. Dismessi gli abiti da viveur delle balere, Alan ci regala anche alcune vette di sportswear presentandosi ad un party di Tv Sorrisi & Canzoni con un look Adidas a metà tra un tennista ed un roller skater.
Per quanto si possa provare ad analizzare con dovizia le diverse correnti estetiche in seno al cantautorato italiano, non va comunque dimenticato che, essendo esso un genere marcatamente pop, i look adottati dai suoi protagonisti erano quelli dominanti, anche se per questo non meno hip, dell’Italia del tempo. Dunque, la rappresentazione più comune del cantautore a cavallo tra ’70 e ’80 – salvo unicum come Battiato o Dalla – risulterà sempre vicina a look da uomo o ragazzo medio del tempo: pantaloni a zampa, giacca in velluto, knitwear e camicia, con vestibilità oscillanti tra slim e baggy a seconda dell’anno in questione. D’altronde il cantautorato è stato specchio fedele e veritiero di un intero Paese, dai testi agli outfit.