La cultura hipster ha ucciso l'estetica di Wes Anderson?
Sopravvivenza di un mito hipster in un mondo in cui gli hipster sono scomparsi
30 Marzo 2023
Insieme a Quentin Tarantino, Wes Anderson è forse il regista più famoso e riconoscibile della sua generazione. Il suo stile narrativo e visivo, fatto di colori pastello, simmetrie assolute, dialoghi iper-espositori e intricati dettagli, rappresenta un mondo così chiuso in se stesso da essere diventato negli anni tipo di estetica – come successe nel 2013 con lo sketch di SNL che immaginava una versione Anderson-iana del celebre horror The Strangers. I film di Wes Anderson 15 anni fa fornivano materiali per quei Tumblr tra il basic e il pretenzioso che condussero all’esplosione della cultura hipster che sull'onda del Facebook prima maniera ebbe una diffusione e democratizzazione che nessun'altra subcultura estetica aveva avuto prima. Ancora oggi milioni di fan in tutto il mondo amano i film di Anderson, che nel corso della sua carriera è arrivato a portare la propria estetica al di fuori del cinema, “firmando” l’arredamento del Bar Luce in Fondazione Prada o, di recente, collaborando con il gruppo Belmond Limited al rifacimento di un treno degli anni ’50 ma soprattutto diventando letteralmente il sinonimo di un certo tipo di estetica, rapidamente spazzata via dai trend visuali dal facile e rapido consumo di Netflix e dello streetwear. La cultura hipster, compresa l'estetica di Wes Anderson, è ancora sinonimo di pretenziosità anche se, giunti ormai alla fine del trend Y2K e all’alba dell’Indie Sleaze, una nuova schiera di designer come Emily Bode, Luke Hall di Chateau Orlando, S.S. Daley, Jezabelle Cormio, Nigo per Kenzo e Charaf Tajer di Casablanca stanno rivisitando quell’universo preppy, elegante e scanzonato.
ASTEROID CITY
— Asteroid City (@AsteroidCity) March 29, 2023
A film by Wes Anderson
Only in theaters June 16 pic.twitter.com/sFxmtqQxXd
Il nuovo film di Anderson, Asteroid City, il cui trailer è stato rilasciato ieri, promette di riportare in auge un’estetica vintage anni ‘50 che sembrava sparita per sempre dal radar ma che invece quest'anno ha rifondato la propria esistenza sul ritorno del vintage e della ricerca di capi d’epoca legati al mondo dei college americani. Dalle Teddy Jacket al tailoring sagomato, passando per la ritrovata popolarità delle patch come elemento decorativo, non si può certo dire che l’hipster sia tornato (dopo tutto la moda guarda oggi allo stealth wealth e alla sartoria concettuale e ultra-minimalista) ma è sicuro che quella vena di romanticismo indie sia viva adesso e tornerà forse a prosperare in futuro. Certo, molti avevano decretato che The French Dispatch fosse stato il salto dello squalo per Anderson e il suo stile, il punto di non ritorno oltre il quale quella simmetria e quella leziosità aveva stancato – ma la verità è che, non appena è uscito, il trailer del nuovo film è tornato a essere virale sui social. In tempi come questi, dopo tutto, in cui spesso lo stile oltrepassa la sostanza, a chi rivolgersi se non al maestro della stilizzazione estrema?
Wes Anderson e la cultura Old World
In effetti, il boom della carriera di Anderson si è avuto tra il 2001 e il 2014. Date che più o meno coincidono con l’ascesa e la caduta dell’estetica hipster che ebbe la sua prima vera codificazione nel 2003 con la pubblicazione di The Hipster Handbook di Robert Lenham. La cultura hipster, con il suo amore per la tecnologia analogica, il suo flirt con il kitsch e con il suo progressismo anti-borghese all’acqua di rose, la sua ossessione per le reference culturali “alte” trovò ne I Tenembaum una specie di nuova Bibbia: ogni singolo dettaglio del film di culto del 2001, dai giradischi alle sigarette europee, dagli outfit preppy ripescati dalla fiera vintage fino alla sua atmosfera aristocratica e un po’ decadente, coglieva perfettamente lo zeitgeist di un’epoca che, all’alba dell’era digitale, cercava nel passato pre-anni ’80 un rassicurante punto fermo a cui rifarsi. Proprio gli outfit de I Tenenbaum, tra i migliori visti nella cinematografia di Anderson, hanno anticipato di decenni tanto l’attuale trend della Old Money Aesthetic quanto lo stravagante vintage rivisitato delle prime collezioni di Alessandro Michele che nella sua collezione di debutto per Gucci, la FW15, incluse un look con pelliccia e berretto militare che a molti ricordò proprio il personaggio di Gwyneth Paltrow, che è fra l’altro una star fortemente associata al brand mentre trasformò la carta da parati della stanza di Margot Tenenbaum, a sua volta ispirata a quella del ristorante Gino of Capri di New York, nel pattern decorativo di un vestito della SS17.
Da un punto di vista culturale ed estetico, il legame fra l'universo delle references andersoniane e quello della cultura hipster, tanto legata al canone classico della cultura europea, che va dalla letteratura al cinema, si può ravvisare per tutti i film successivi: da Le avventure acquatiche di Steve Zissou fino a Grand Budapest Hotel, Anderson ha ripescato dal passato il mito di Jacques Costeau, le favole di Roald Dahl, i film di Truffaut, Shakespeare, i libri di Stephen Zweig associandolo a un immaginario estetico molto Old World, dove tutti gli uomini indossano impeccabili completi con pattern eccentrici, le donne abiti anni ‘50 e ‘60 e tutti gli outfit sportivi possiedono una patina vintage e un’insistenza su accessori in spugna o in maglia che evocano atmosfere da country club o da battuta di caccia inglese. Tutta una cultura nostalgica e soprattutto eurocentrica che, pur mantenendo il proprio valore, mal si sposa con il multiculturalismo tipico dei nostri tempi. La stessa cultura hipster, già nel 2006, aveva iniziato a presentare aspetti problematici legati al razzismo e sessimo che la connotava, arrivando a essere co-optata dai gruppi neonazisti e portando alla nascita dei Nipsters, contrazione di “Nazi Hipsters”.
Sopravvivere all'era post-hipster
Al netto delle impressioni che The French Dispatch ha lasciato, è forse giunto il momento di domandarsi come lo stile di Anderson sia invecchiato in un mondo che, dai tempi de I Tenembaum, è irrimediabilmente cambiato. Non è un caso se almeno due tra i film del regista, Il treno per il Darjeeling e Isle of Dogs, siano stati accusati di una certa insensibilità culturale: il primo per la sua visione ampiamente stereotipata della cultura indiana e per l’ottica vagamente colonialista di molte scene; il secondo per la presenza di numerosi cliché razziali e la presenza di un white savior che finisce per sciogliere i conflitti della trama. Al di là degli aspetti problematici di questi due film, il resto della produzione creativa di Anderson orbita intorno a un’estetica fortemente legata alla white upper-class che, ai tempi dell’ondata hipster dei primi anni ’10, risultava assolutamente deliziosa ma il cui tono reazionario, oggi, potrebbe risultare forse antiquato. Ma di recente abbiamo assistito a un nuovo fenomeno apparso tra gli street style delle ultime fashion week: gli elementi riconoscibili e upper-class della sartoria vengono ri-appropriati, spogliati della loro aura di privilegio e ricontestualizzati in modo tale da diventare un framework riconoscibile dentro cui inquadrare nuove spinte culturali. Completi gessati, pantaloni anni '70, mocassini e camicie dal lungo colletto sono tornate un po' ovunque a ricordarci che la sartoria è molto più del business casual dei finance bros e che possiede un intero range espressivo declinabile attraverso le estetiche di molteplici subculture sia vecchie che nuove.
Dopo tutto gli stessi film di Anderson non si concentrano ossessivamente sulla questione del privilegio, anzi: in The French Dispatch si parla dei moti rivoluzionari del '68 e del rapporto tra arte e salute mentale; in Grand Budapest Hotel si parlava del sorgere degli assolutismi e di immigrazione; ne I Tenembaum si affrontava l’idea delle famiglie disfunzionali, del suicidio e degli effetti del privilegio sociale. Ma l’impressione dominante è che l’universo culturale a cui si rifà il regista abbia perso il polso culturale delle cose, lasciandosi andare a una specie di nostalgica autoreferenzialità che include, ad esempio, rispolverare l’epoca d’oro del giornalismo intellettuale tra gli anni ’20 e i ’70 e che non ha più contatto con il presente. In breve, l’estetica di Anderson pur mantenendo tutto il suo valore artistico ha perso quella rilevanza e attualità culturale che aveva un tempo un po’ come è successo a tutti quei registi rappresentativi del canone cinematografico della hipster culture come Woody Allen, Xavier Dolan, Sofia Coppola, Gus Van Sant, Nicolas Winding Refn o Jim Jarmusch.
La sua longevità si spiega allora considerando come, anche se la subcultura degli hipster è morta e sepolta, le sue influenze e ramificazioni sopravvivono ancora: l’ossessione per il vintage e l’archivio, la ricerca di realness, l’orientamento politico liberal, l’importanza dell’originalità e dell’auto-espressione, la nostalgia di un passato migliore, l’importanza dell’educazione di fronte al crescente anti-scientismo ma anche l’ossessione per l’occulto e la spiritualità che emerge ovunque su Instagram e TikTok. A essere cambiate sono solo le premesse: se gli hipster fondavano la propria validità su privilegi come le università private e su un senso di elitismo culturale, il multiculturalismo di oggi sta tentando di leggere quello stesso patrimonio culturale da prospettive meno adoranti e più molteplici oltre che a includere patrimoni culturali diversi e alternativi all’interno dei canoni artistici ed estetici. E dunque il linguaggio di Wes Anderson non è del tutto moderno né del tutto retrogrado – anche se forse avrebbe bisogno di un salutare aggiornamento.