Con vent'anni di carriera alle spalle si può dire che Shablo, all'anagrafe Pablo Miguel Lombroni Capalbo, ha toccato con mano la nascita e la trasformazione della scena rap italiana. Dalla PMC fino alla nascita di Roccia Music, sotto le sue mani sono passati tutti, da Marracash e Guè Pequeno fino al sodalizio con Sfera Ebbasta. Un percorso che l'ha reso unico, un punto fermo che trascende dalla musica arrivando fino al mondo streetwear e alla sneaker culture, come testimoniato dalla recente collaborazione con PUMA. Shablo è infatti tra i nomi scelti per il lancio delle PUMA Mirage Mox, la nuova sneaker del brand tedesco disponibile su Sneakers76. Fusione perfetta tra il look anni '80 ed elementi moderni, le Mirage Mox spiccano per colori accesi che arricchiscono i diversi layer, rendendo la sneaker unica grazie a una silhouette rinnovata. La sneaker si ispira all'irreale, lo spazio tra ciò che è reale e quello che immaginano i nostri sensi per trasportarci all'interno di una nuova realtà. Una silhouette che promette di essere iconica, così come iconico è diventato Shablo per la musica italiana. nss magazine ha passato con lui una giornata nel suo studio, per parlare di scena italiana, fashion e dei rapper come moderni influencer in un progetto realizzato in collaborazione con Sneakers76.
Sei nato in Argentina per trasferirti in Italia dopo pochi anni poi per andare a lavorare ad Amsterdam. Quanto c’è di tutto questo nella tua musica e nel tuo modo di lavorare?
Sicuramente tanto, ho quest’anima da migrante ereditata dalla mia famiglia. Considera che è dal 1800 che girano per il mondo, sono partiti dall’Italia per poi andare in Brasile e in Argentina, poi in Svizzera e negli Stati Uniti. E' una cosa che fa parte del karma familiare, ma è anche aggiornato con lo spirito dei tempi. La musica in questo periodo storico sta diventando sempre più globale, ormai non puoi più vedere il mercato come qualcosa di limitato al tuo territorio. Provare ad andare fuori non è più un sogno, "Famoso" ne è la prova e per questo il presente della musica è già più globale.
Partendo proprio da Sfera: quanto manca all’Italia per riuscire ad affermare i suoi artisti a un livello internazionale senza featuring o push da parte di altri artisti?
Ci sono tanti fattori, ma è soprattutto una questione di priorità. Con Sfera abbiamo iniziato partendo da Milano, poi l’hanno conosciuto in Italia e in Europa, iniziando ad uscire dai confini europei. Adesso stiamo iniziando negli Stati Uniti, ma lì è come se fosse un emergente. Per questo è un percorso ancora da fare, lo stiamo iniziando oggi e non so quanto tempo ci vorrà. Ovviamente i featuring aiutano, ma non è quello il punto. Il featuring è solo uno dei tasselli che uno deve andare a coprire all’interno di una strategia. Ovviamente il mercato americano è il più difficile del mondo, ci vorrà del tempo e tanta pazienza, ma è importante aver aperto delle strade. Già adesso sapere che "Famoso" è il quarto disco più ascoltato al mondo su Spotify non è un dettaglio. Non è entrare nella Top Global al 160esimo posto, è qualcosa di diverso, di nuovo.
Secondo te di che tipo di supporto da parte del suo territorio ha bisogno un artista che vuole provare a distruggere i confini nazionali? Dalle istituzioni all’industria musicale, in che modo potrebbero aiutare un artista a uscire dai confini?
Il supporto di tutte le strutture che lavorano nella discografia, dal team dell’artista fino alla casa discografia e l’editore, è fondamentale nella riuscita di un progetto. C’è un discorso di investimenti che possono essere fatti dalla case discografiche o dai partner nel mondo, che sicuramente aiutano a costruire qualcosa di più solido. Ma tutto questo arriva in un secondo momento, prima di tutto ci deve essere una predisposizione naturale dell’artista in grado di andare oltre un investimento. A un certo punto fai un salto nel vuoto e sei nelle mani di Dio, non sai se funziona o non funziona.
Nel docufilm "Famoso" viene raccontato molto bene il viaggio di Sfera, così come la sua quotidianità. Ma come funziona la quotidianità di Shablo nel doppio ruolo di producer e manager. Come si fa a tenere in equilibrio entrambe le cose?
Diciamo che mi è servito qualche anno d’esperienza per raggiungere l’equilibrio giusto. È un po’ il mio segreto, ho trovato un equilibrio. Con Sfera faccio un lavoro più manageriale e strategico. Ovviamente facciamo anche delle sessioni in studio, ma fondamentalmente con lui faccio un lavoro diverso rispetto a quello che faccio con altri artisti. È un processo stimolante che ti da la possibilità di sperimentare cose che altrimenti sarebbero molto difficili.
Hai un modello per questo tipo di ruolo? Qualcuno negli Stati Uniti che hai osservato.
In realtà no. Ho sempre ammirato il modo di fare degli americani, il loro mercato è dove è nato l’entertainment e l’hip-hop, sono i padri fondatori di questo business musicale in cui la grande sfida è fare musica riuscendo anche a ricavarne qualcosa. È una mentalità che in Italia per anni non c’è stata. Un po’ per come si è evoluta la storia del rap, che nascendo dai centri sociali non guardava di buon occhio tutto quello che era l’avvicinarsi al commerciale e ai soldi. Veniva visto come un vendersi. In realtà la realizzazione passa anche per queste cose qua. Più cresce il genere e più cresce tutto quello che c’è intorno.
Parlando del lavoro dietro le quinte, quello più manageriale che svolgi: secondo te quanto è difficile relazionarsi con un’industria come quella fashion o anche con il mondo delle sneaker per un'artista?
Oggi la parte musicale è strettamente legata con quella fashion e gli artisti che hanno saputo capire questa connessione sapendo gestirla al meglio sono quelli che conoscono le regole del gioco e hanno portato a casa dei risultati. L’immagine fa parte della personalità di un artista e un artista senza personalità non avrà mai successo. Oggi questo genere è diventato sicuramente mainstream, attira molti brand e aziende che vogliono investire. Un processo che ha portato i rapper ad essere tutti gli effetti degli influencer, influenzano le vendita e per questo lavoriamo costantemente con diversi marchi che ci pagano per promuovere dei prodotti. In più conta che oggi il fashion è pesantemente ispirato dalla strada, da dove nasce quel tipo di musica, mentre prima era il contrario e il rap era affascinato dai mega brand che ignoravano chi veniva dal rap. Gli stessi brand adesso scelgono come testimonial tantissimi artisti. È una rivincita.
Da dove nasce la tua attenzione verso la scena rap napoletana? Penso a Geolier e a tutto il resto degli artisti con cui hai collaborato.
A Napoli sono riusciti a creare un linguaggio universale e unico ben prima del rap, molto legato al territorio con grandissimi nomi che hanno costruito un’eredità. Se penso alla musica italiana nel mondo, negli anni ’50 e ’60 era la musica napoletana. In passato avevo prodotto tutti i dischi di Clementino quando venne fuori dal 2 The Beat, poi ho lavorato con Luchè e tante altre cose. Adesso abbiamo da poco firmato con Samurai Jay, un altro ragazzo della stessa zona di Geolier. A me piace tantissimo quel modo di fare, credo che quell’idea di crearsi sia molto vicina al mondo dell’hip-hop.
Ultima domanda, risposta secca. Come si diventa Shablo?
Vivendo. Vivendo vent’anni, avendo pazienza, sbagliando e rialzandosi. È un percorso lungo. Il mio consiglio è quello di fare le cose per passione, di non essere attratti solo dal lato business, quella è solo una conseguenza. Ma la cosa più importante è amare quello che si fa, avere passione per quello che si fa e tutto il resto arriverà.
Le PUMA Mirage Mox sono disponibili online nella colorazione Steel Gray-Eggnog su Sneakers76.