Op-ed: che cos'è la cancel culture e perché deve cambiare?
Il format del tribunale popolare online senza se e senza ma va cambiato
26 Giugno 2020
Negli ultimi anni, i Millennial e la Gen Z sono stati i principali fautori di quel fenomeno virale sviluppatosi online e noto come cancel culture, ossia l’ostracismo messo in atto nei confronti di figure pubbliche che vengono appunto “cancellate” dopo aver detto o fatto qualcosa di controverso o offensivo. Negli ultimi mesi, però, si è sollevato un dibattito circa la sua correttezza. La questione è tornata a essere attuale in luce del recente movimento del #BlackLivesMatter e del fenomeno dell'abbattimento delle statue, oltre che della censura che ha colpito film come Via col Vento e alcuni episodi di Scrubs che sono stati ritirati dalle piattaforme di streaming per non parlare dell'unanime condanna che ha colpito J.K. Rowling dopo i suoi commenti transofobi. Questo tipo di prassi, che già è presente da qualche anno nel mondo della moda grazie al lavoro di moral watchdogs come @dietprada, è capace di creare moltissimi danni - e sono in molti i brand al di fuori del fashion system e le grandi aziende dell'intrattenimento che ora si ritrovano ad affrontarlo.
Lo stesso concetto di cancel culture, a un’attenta analisi, risulta problematico: non è altro che un tribunale popolare che decide ufficiosamente di boicottare una celebrity o un brand che ha condiviso un’opinione discutibile o fatto qualcosa di problematico nel passato o nel presente, e sempre secondo gli standard morali degli utenti dei social media. Di solito il processo inizia con la rivelazione del misfatto, che poi finisce per diventare virale e tradursi in un cyber-attacco di massa ai danni del bersaglio che diventa presto un vero e proprio ostracismo, che li “cancella” appunto, boicottando i loro prodotti, che si tratti di musica, film o abiti, o anche causando il loro licenziamento e l’insorgere di cause legali. Tutti ricordano gli scandali che hanno coinvolto Dolce & Gabbana dopo la loro infelice uscita sulla Cina o gli scandali portati alla luce dal movimento #MeToo. I giovani di oggi hanno preso il potere della viralità online e lo hanno usato per creare un tribunale di giustizia popolare che spesso si dimostra completamente spietato nei confronti dei suoi accusati.
Dati i livelli di pura brutalità a cui questi tribunali online sono giunti, ha cominciato a svilupparsi un dibattito circa la correttezza dei loro comportamenti e se questi non conducano piuttosto ad ulteriori abusi. La questione si è diffusa tanto che persino Barack Obama ha commentato il fenomeno definendolo «tossico e del tutto diverso dall’attivismo». Comunque stiano le cose, la complessità della vicenda va oltre le semplici etichette di “giusto” e “sbagliato” perché questo tipo di cultura possiede tanti difetti quanti pregi.
Nel corso degli ultimi anni, sono stati innumerevoli di casi di “cancel culture” che hanno avuto altrettanto innumerevoli risultati – la discutibile e razzista campagna di Dolce & Gabbana, accompagnata dai loro controversi commenti, ha causato al brand perdite per milioni di dollari nel mercato cinese e un parziale boicottaggio del brand; i fotografi di moda Mario Testino e Bruce Weber, accusati di molestie sessuali, si sono conclusi con la chiusura delle loro agenzie creative, cause giudiziare e un boicottaggio da parte del fashion system tanto che ancora ora la reputazione di chiunque lavori con loro risulta macchiata. Persino l’arresto di R Kelly per le sue relazioni con ragazze minorenni è partita da un’ondata di accuse e indignazioni nate sui social. Tutti questi casi dimostrano come l’efficienza della “cancel culture” nel punire i colpevoli di abusi sia innegabile. Anche perché i social media sono diventati la piattaforma ideale per riportare alla luce ciò che si era provato a nascondere e ha portato tutte queste persone ad affrontare le conseguenze delle proprie azioni.
In ogni caso, le principali problematiche di questo fenomeno è che spesso non lascia spazio al perdono, anche nei confronti di chi è effettivamente innocente. A differenza della giustizia civile, che commisura il castigo al crimine e mette in atto un processo per i singoli casi, il tribunale della cancel culture non possiede flessibilità o senso critico, non torna sui propri passi e, dopo aver colpito un personaggio o un brand, lo considera colpevole per sempre, senza possibilità di redenzione. Bollare a vita i colpevoli può funzionare nel caso in cui si tratti di molestatori seriali ma non si può dire lo stesso quando si tratta di casi minori o più complessi.
Prendiamo ad esempio il caso di Taylor Swift menzionato prima. Nel 2019 la cantante americana venne ostracizzata dal pubblico dei social per aver mentito circa una controversia sorta fra lei, Kim Kardashian e Kanye West. Qualche mese più avanti, però, un clip emerso online ha dimostrato che aveva ragione: Taylor Swift meritava il suo perdono. Ma la “cancel culture” è del tutto sprovvista della capacità di considerare tutte le diverse angolazioni di una storia e i suoi possibili retroscena.
Altri due casi, verificatisi di nuovo nel mondo della moda, sono quelli dell’uso della blackface che hanno coinvolto Gucci e Prada nel 2018. Dopo la release di alcuni prodotti ritenuti offensivi, il tribunale dei social ha addirittura invocato un boicottaggio mondiale dei due brand e dei loro prodotti. In seguito agli scandali, entrambi i brand hanno porto le loro scuse e hanno adottato misure per organizzare intere commissioni interne dedicate alla diversità e all’inclusione oltre che modificare la propria policy nei confronti dell’assunzione dello staff. Ma anche se queste risposte hanno eliminato la minaccia del boicottaggio, quella macchia sulla loro reputazione è rimasta e sono in molti, al di fuori dell’industria della moda, a considerare “cancellati” i due brand.
Se la giuria di un vero tribunale dovrebbe considerare nella sua interezza il caso dell’accusato considerando le prove, valutando lo stato mentale delle parti coinvolte e tenendo a mente la loro potenziale riabilitazione per determinarne la sentenza, la cancel culture non vede sfumature né complessità. Il che è in parte il motivo per cui oggi sembra stia perdendo il suo impatto. Nei suoi casi più recenti, il suo impatto non è stato durevole come un tempo e sono sorte numerose odmande circa le motivazioni e gli abusi di cui lo stesso movimento si è macchiato. La cancel culture ha colpito così tante celebrità e brand nel 2020 che è oggettivamente difficile tenere il conto di chi va ancora bene supportare e chi invece dovremmo condannare.
Questo non significa che bisognerebbe abolire la “cancel culture”, anche perché per molti versi essa rimane è importantissima e può servire a creare una società più equa e moralmente corretta. Allo stesso tempo, però, servirebbe guardare al fenomeno con occhio critico e sapere come e quando chiamarlo in causa. Ad esempio non saltando immediatamente a conclusioni ostracizzando immediatamente chiunque sembri colpevole, e cercando di distinguere chi merita una condanna da chi merita un perdono. Un maggiore senso critico potrebbe anche aiutare a comprendere chi potrebbe avere l’intenzione o il potenziale di migliorare e chi invece merita di essere punito. La differenza fra gli scandali che hanno coinvolto Dolce & Gabba e i casi di Gucci e Prada, ad esempio, sono stati che, nel primo caso, i direttori creativi si sono limitati a domandare scusa in un video, mentre nel secondo entrambi i brand hanno speso milioni per introdurre cambiamenti nella propria struttura aziendale, assumendo persone, avviando corsi di sensitivity training e mettendo in pratica tutti i cambiamenti necessari.
Come giurati di questo tribunale collettivo, dobbiamo iniziare a domandarci quali sono le nostre intenzioni ultime, che tipo di cambiamento vorremmo vedere e quali sono le migliori tattiche per ottenerlo, invece che ricorrere subito al boicottaggio e alla condanna assoluta come unica misura. Un altro possibile esempio del fenomeno è quello della modella trans Munroe Bergdorf che ha accusato L’Oreal di aver pubblicato un blando statement contro il razzismo dopo averla eliminata da una loro campagna, tre anni fa, proprio per aver parlato contro il razzismo. Ma invece che invocarne il boicottaggio e condannarli, la modella si è dimostrata aperta ad accogliere le scuse del brand e sentire il loro punto di vista e le loro proposte di miglioramento. In tutta risposta, L’Oreal la ha assunta come parte del Diversity Board per il Regno Unito dandole l’opportunità di evitare che altri subiscano la sua stessa esperienza.
Quello di Munroe Bergdorf è l’esempio perfetto di come tutti questi casi di scandali scoppiati sui social dovrebbero essere gestiti, ossia dando a chi ha sbagliato la possibilità di rimediare ai propri errori. Questo è l’unico vero metodo, oppure fra dieci anni non ci saranno più brand o celebrity rimaste perché avremo boicottato tutti. La cancel culture ha anche aiutato persone al di fuori dello star system, esponendo i comportamenti scorretti e razzisti di certi individui su Twitter anche causando il loro licenziamento e la rottura del loro contratto d’affitto. Ma se la cancel culture dovrà mantenere la propria forza ed aiutare realmente a cambiare il sistema, dovrà moderare le sue frange più estreme e risolvere i problemi interni a se stessa.