A Guide to All Creative Directors

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È possibile fare un concerto in una zona di guerra?

Da Springsteen a Berlino al concerto in Ucraina di Neil Young

È possibile fare un concerto in una zona di guerra? Da Springsteen a Berlino al concerto in Ucraina di Neil Young
È possibile fare un concerto in una zona di guerra? Da Springsteen a Berlino al concerto in Ucraina di Neil Young

A seguito dell’incontro-scontro tra Trump e Zelensky, il rocker canadese Neil Young ha annunciato la sua intenzione di tenere un concerto in Ucraina. Non una boutade, ma un annuncio ufficiale, ripreso da svariate testate giornalistiche con tanto di paginone dedicato sul sito dell'artista. Al momento, però, non c’è nulla di confermato: «Siamo nel mezzo delle trattative e annunceremo qui i dettagli. Keep on rockin’ in the free world», recita l’annuncio. Finora, l’intenzione del cantante canadese sarebbe quella di tenere un concerto gratuito in Ucraina come apertura del suo mini tour europeo, che quest’estate lo vedrà impegnato in Nord Europa dal 18 giugno al 6 luglio. Difficile dire se il concerto in Ucraina si concretizzerà veramente: in molti, all’indomani dell’annuncio, si sono domandati quanto sia effettivamente un'impresa realizzabile, visto e considerato che l’Ucraina è ancora ad oggi una zona di guerra attiva. Non sarebbe comunque la prima volta: in passato ci sono già stati dei rari casi di artisti che si sono esibiti in zone di guerra. Di seguito abbiamo raccolto un elenco di quelli che sono stati ad oggi gli episodi più memorabili.

Il canto del fuoco di Leonard Cohen nel Sinai (1973)

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È possibile fare un concerto in una zona di guerra? Da Springsteen a Berlino al concerto in Ucraina di Neil Young | Image 559859

Il giornalista del New York Times Matti Friedman racconta nel libro Il canto del fuoco l’incredibile storia del tour che Leonard Cohen fece nel Sinai nel 1973, durante la guerra del Kippur che vedeva schiarate da una parte le forze egiziane e siriane e dall’altra lo stato d’Israele. Non si trattò, in realtà, di un vero e proprio tour programmato: Cohen era partito alla volta di Tel Aviv senza un chiaro motivo in mente e soprattutto senza portarsi dietro neanche una chitarra. Un pomeriggio, tuttavia, viene riconosciuto da alcuni musicisti locali che gli chiedono se gli va di unirsi a loro per andare a suonare davanti alle truppe israeliane, impegnate in guerra. Inizia così un viaggio musicale e spirituale che non fu né semplice, né privo di contraddizioni: il cantautore canadese entrò in stretto contatto con la vita militare e i soldati entrarono in sintonia con le sue canzoni. Entrambe le parti alla fine beneficiarono in qualche modo dell’esperienza da un punto di vista profondamente umano. 

Il Tour di Rory Gallagher in Irlanda del Nord (1974)

A differenza della scelta casuale che aveva avviato il viaggio di Cohen, il tour di Rory Gallagher in Irlanda del Nord nel 1974 fu invece una scelta molto più consapevole: una vera e propria tournè organizzata nel bel mezzo dei cosiddetti Troubles - il conflitto armato tra indipendentisti e unionisti nordirlandesi che per oltre trent’anni ha insanguinato il paese dentro e fuori confine. A testimonianza del tour esiste anche un bellissimo film-concerto di Tony Palmer che ne ripercorre le tappe principali. Una delle più memorabili è sicuramente quella tenutasi a Belfast nel giorno di Capodanno. All’epoca la città viveva nel terrore, le strade erano deserte e la gente preferiva restare rintanata nelle proprie abitazioni. Soltanto la sera prima la capitale nordirlandese era stata devastata dall’esplosione di dieci bombe, posizionate in diversi punti critici tra cui anche un cinema per bambini. Sprezzante del pericolo, Rory Gallagher aveva affermato «Non vedo alcun motivo per non suonare a Belfast. Ci sono ancora ragazzi che vivono qui». Gallagher era cresciuto a Cork, nell’Irlanda del sud, mentre i suoi musicisti, Wilgar Campbell e Gerry McAvoy, erano nativi proprio di Belfast. Tutti e tre sapevano bene quanto i ragazzi di quella città lacerata avessero bisogno di musica. Sul sito del chitarrista irlandese è possibile leggere una rara testimonianza dell’epoca che riesce a trasmettere tutto l’entusiasmo del pubblico presente quel giorno all’Ulster Hall. «Stiamo dando troppa importanza al rock?» chiede a un certo punto l’autore. «No» - gli risponde Jim Aikin, organizzatore dell’evento - «fa qualcosa che nessun altro può fare. Se riusciamo ancora a tenere un concerto, può solo essere un bene».

I concerti della Guerra Fredda: dal Muro di Berlino all’Unione Sovietica (1987-1988)

Non possono essere considerate delle vere e proprie esibizioni in zone di guerra, ma meritano comunque una menzione speciale alcuni concerti che si sono tenuti nei pressi del muro di Berlino prima del crollo del 1989. Il concerto a Berlino Ovest di David Bowie, nel 1987, con tanto di saluto «a tutti gli amici dall’altro lato del muro» radunatisi per partecipare all’evento nonostante la barriera militare. In seguito, grazie al supporto della Fdj - la Federazione Giovanile Comunista - ci furono altri due concerti fondamentali che si tennero addirittura a Berlino Est: quello di Bob Dylan, del 17 settembre 1987, davanti a un pubblico incredulo di quasi centomila persone; e ancor di più quello di Bruce Springsteen del 19 luglio del 1988, stavolta davanti a circa 300mila persone, alle quali il Boss disse poche semplici parole ma di forte impatto emotivo: «Non sono venuto qui per cantare a favore o contro alcun governo, ma soltanto a suonarvi rock’n’roll, nella speranza che un giorno tutte le barriere possano essere abbattute». Quando poi intonò Chimes of Freedom di Bob Dylan fu chiaro a tutti che a volte una canzone può valere più di mille discorsi politici. Dall’altro lato della cortina di ferro, invece, uno dei primi a esibirsi in concerto è stato Billy Joel, nell’estate del 1987: in sei date (di cui tre a Mosca e tre a Leningrado), riuscì ad avvicinare due mondi distanti, sciogliendo le tensioni di un pubblico inizialmente sorpreso da tanta energia e parzialmente immobile, come ibernato da anni di guerra fredda e isolamento. Joel arrivò a fracassare il pianoforte per terra finendo addirittura per fare stage diving sollevato da un pubblico in delirio - come ampiamente documentato in nel documentario Billy Joel - A Matter of Trust: The Bridge to Russia.

I concerti di Sarajevo durante la guerra nella ex Jugoslavia (1992-1997)

Nella storia della guerra della ex Jugoslavia l’assedio di Sarajevo occupa un posto tristemente speciale, poiché si è trattato del più lungo assedio nella storia bellica moderna da dopo la II Guerra Mondiale: un’intera città tenuta sotto scacco dai bombardamenti e dai cecchini per 1425 giorni, dal 5 aprile 1992 al 29 febbraio 1996. Ci sono varie testimonianze musicali del fatto che a Sarajevo la musica è stata fin da subito nemica della guerra. Nel maggio del 1992, un colpo di mortaio uccise ventidue persone in un mercato. Il violoncellista Vedran Smailović si recò sul posto e suonò per ventidue giorni consecutivi l’Adagio in sol minore di Albinoni. Per tutto il periodo dell’assedio Smailović continuò a esibirsi in giro per la città, incurante dei pericolo, suonando anche tra le rovine della Biblioteca Nazionale, divorata dalle fiamme, a cui i C.S.I. dedicarono la canzone Cupe vampe. Nonostante la morte di molti musicisti, anche l’Orchestra Sinfonica della città non smise mai di suonare durante l’assedio. L’esempio fu seguito a ruota da molti altri giovani musicisti locali: per sopravvivere non solo nel corpo ma anche nello spirito, cominciarono a organizzare spettacoli teatrali e concerti clandestini che spesso si tenevano in scantinati e locali sotterranei, con generatori d’elettricità d’emergenza.

In quegli anni, oltre alle esibizioni dei gruppi locali, ci furono anche due concerti internazionali eclatanti: il concerto di Bruce Dickinson (storico cantante degli Iron Maiden) nel 1994. E il concerto degli U2 nel 1997. Tra i due eventi c’è una grossa differenza. Il concerto di Bruce Dickinson, insieme agli Skunkworks - la band che lo accompagnava nella sua turné solista - fu organizzato in un piccolo club, mentre la guerra era ancora in corso e c’era quindi il rischio di saltare in aria su una granata o essere uccisi da un proiettile. Quello degli U2 si tenne in un grande stadio, dopo la firma degli accordi di pace di Dayton (1995), in una situazione molto più tranquilla dal punto di vista della sicurezza. L’invito a suonare a Sarajevo, in realtà, era arrivato anni prima: il corteggiamento della band di Dublino era iniziato nel 1993, quando lo scrittore-attivista e regista Bill Carter – trasferitosi a Sarajevo - vide uno spot di MTV in cui Bono Vox mandava la sua solidarietà al popolo bosniaco. Gli venne così la folle idea di provare a contattarlo e incredibilmente ottenne una storica intervista durante la quale formulò l’invito. Vista l’impossibilità pratica di portare una band così grossa a suonare a Sarajevo mentre infuriava la guerra, decisero di stabilire dei collegamenti video durante il tour mondiale della band. Le “trasmissioni” furono interrotte nel momento in cui si cominciò ad avere la sensazione che l'iniziativa stesse diventando quasi uno spot per gli U2, anziché un momento di riflessione sulla guerra. Rimase però la promessa della band di suonare a Sarajevo non appena fosse stato possibile, cosa che avvenne quattro anni dopo, in un grande concerto immortalato nel documentario del 2023 Kiss The Future.

Per fare un concerto a Sarajevo durante la guerra ci voleva, invece, qualcuno dotato di un po’ più di incoscienza. Quel qualcuno fu Bruce Dickinson. Il piano che gli era stato prospettato sulla carta non sembrava così pericoloso: lui e la sua band sarebbero arrivati in aereo a Spalato e da lì avrebbero raggiunto Sarajevo in elicottero, scortati dai caschi blu dell’Onu, poi avrebbero suonato e se ne sarebbero andati via così come erano venuti. Peccato che, una volta giunti in Croazia, gli dissero che la situazione era peggiorata, che li ringraziavano per essere venuti ma era troppo pericoloso viaggiare in elicottero su Sarajevo e avrebbero fatto meglio a tornare in Inghilterra. Dickinson ci pensò su un attimo, poi disse «ok, non importa, niente elicottero, non so come, ma troveremo un altro modo per andare». E in effetti trovarono un passaggio tramite The Serious Road Trip, una ONG che si occupa di portare spettacoli e speranza in zone di guerra. Viaggiarono a bordo di un loro furgone sentendo gli spari nella notte e alla fine tennero davvero il concerto nell’incredulità totale degli abitanti, che ancora oggi lo ricordano tra le lacrime, in un altro toccante documentario intitolato Scream For Me Sarajevo. Furono proprio quelle le parole del cantante degli Iron Maiden che rimasero più impresse nelle menti e nei ricordi dei ragazzi presenti sotto al palco. A diversi anni di distanza, Dickinson ha commentato così:

«Devi far provare qualcosa alla gente, dargli qualcosa di migliore. Ma comporta un rischio, e se hai vissuto tutta la vita senza correre rischi, non so cosa puoi fare. Forse dovresti ucciderti per non correre alcun rischio, l’unico modo per non rischiare è essere morto. Non puoi vivere tutta la vita così, non è vita».