
Come si fa a trasformare un libro in un film cult?
Cara Hollywood, adattare non significa copiare
18 Febbraio 2025
Spesso grandi film arrivano da grandi libri. Non sempre, però, i lungometraggi riescono ad essere all’altezza, mentre altre volte sono gli stessi romanzi ad aver acquistato valore grazie a sceneggiature che adattano con arguzia il fulcro delle pagine scritte, facendo un lavoro di resa superiore rispetto alla carta stampata. Uno su tutti è The Social Network, tra le sceneggiature più puntuali mai state scritte nella storia del cinema e non solo perché in grado di rappresentare con occhio esterno e analitico gli inizi problematici del creatore di Facebook, Mark Zuckerberg, bensì per la capacità di Aaron Sorkin di rendere ritmiche e dinamiche semplici frasi di dialogo. Basti pensare alla scena iniziale, vero e proprio esempio paradigmatico di cosa è e cosa dovrebbe essere la scrittura cinematografica: testi, sottotesti, prontezza nelle risposte, lingua che va più veloce del pensiero. Una coppia che si sta lasciando all’interno di un bar affollato e che nel giro di cinque minuti ci descrive il personaggio di lui, di lei, dei loro bisogni e dei loro difetti, inserendoci anche l’incidente scatenante del film. Il tutto in soli cinque minuti.
È pur vero che con The Social Network Sorkin aveva il terreno spianato, non essendo chissà di quale arguzia o profondità Miliardari per caso – L’invenzione di Facebook: una storia di soldi, sesso, genio e tradimento scritto da Ben Mezrich da cui prende spunto. L’opera era stimolante giusto per partire dalle vicende del giovane studente di Harvard che, volendosi vendicare della propria ex fidanzata – esattamente come comprensibile da quell’opening sensazionale del film – si inventa la maniera più svilente di trattare le donne, mettendole a confronto su internet e facendole votare da altri utenti. Nel testo di Mezrich, pubblicato nel 2009, Sorkin e il regista David Fincher hanno trovato la volta con cui stravolgere a proprio favore la storia, pur rimanendone pressoché fedeli, creando così un vero e proprio personaggio letterario, nel senso narrativo del termine, più di quanto fosse stato descritto in tale maniera sulla pagina stampata. Con otto candidature agli Oscar e tre premi vinti, The Social Network si portò a casa miglior colonna sonora, miglior montaggio e, ovviamente, miglior sceneggiatura non originale, tre diversi elementi dello stesso spettro cinematografico che contribuiscono a dare battito ad un film.
Ci sono poi libri che continuano a venir rielaborati, stravolti, trasposti secondo personali rivisitazioni, mentre altri si affidano alla coerenza della storia scritta, sebbene sia sempre da ricordare che adattare non significa copiare e che è proprio nelle abilità dei bravi sceneggiatori saper trovare la chiave giusta che elimini il superfluo e renda attraverso le immagini le parole che appartengono alla dimensione del romanzo. Queer ne è uno degli esempi più recenti: Luca Guadagnino, che si affida ancora una volta a Justin Kuritzkes dopo la collaborazione con Challengers, dirige una versione che è affine sia alle parole scritte e vissute da William S. Burroughs sia a quella dimensione irreale e intangibile che il romanziere aveva sperimentato attraverso l’uso delle droghe e che aggiungeva surrealismo ai suoi viaggi alla ricerca dell’amore, del contatto umano e, soprattutto, della sua introvabile ayahuasca. Presentato in anteprima a Venezia81 e nei cinema italiani da aprile 2025, il film di Guadagnino è la mescolanza della narrativa, dell’esistenza e di tutto ciò che di derivativo è stato prodotto da e post Burroughs, cesellato in un unico film. Pagine sfuggenti di cui l’opera sullo schermo riporta la medesima inafferrabilità, mostrando che anche l’imprendibile può essere fantasiosamente concreto.
Gary Oldman as Dracula in 1992. Photography by Herb Ritts pic.twitter.com/eUNQz3NNzZ
— Aremis (@Aspiromentis) August 6, 2024
Non contento di questa sua immersione nella letteratura, avendo portato al cinema il libro che amava da ragazzo e trattandone ora un altro entrato nel pantheon dei romanzi cult, Guadagnino è pronto per la sua versione di American Psycho, già trasposizione per Mary Harron nel 2000 dal romanzo omonimo di Bret Easton Ellis. Se da una parte il ritorno del personaggio di Patrick Bateman, ai tempi interpretato da Christian Bale e adesso destinato a Austin Butler, evidenzia come il thriller, anche dalle tinte più oscure, sia uno dei generi più fertili per il passaggio dal libro allo schermo (da Il silenzio degli innocenti al recente Conclave, la storia insegna), un nuovo American Psycho è anche la prova di come da un singolo (s)oggetto possano discendere una varietà di versioni. Esattamente come capitato a Nosferatu di Robert Eggers, che per quanto possa rappresentare la più diretta conseguenza del vampiro cinematografico di Friedrich Wilhelm Murnau del 1922, affonda le proprie radici nel racconto Dracula di Bram Stoker del 1897, il sui personaggio dagli anni Venti ai tempi recenti è apparso sullo schermo, come protagonista o meno, più di centotrenta volte. Quando poi si vanno a prendere figure tanto classiche, quasi archetipiche nella loro essenza, la possibilità di declinarle in quante più varianti possibili è all’ordine del giorno. È per questo che non c’è da meravigliarsi se nel 2024 esce un’opera come Lisa Frankenstein di Zelda Williams, debutto alla regia della figlia dell’iconico attore e comico Robin, dove una ragazza resuscita un giovane con cui intraprende una storia d’amore tra romanticismo e omicidi, mentre nel 2025 da Guillermo Del Toro ci si attende la versione più attinente possibile al romanzo orrorifico di Mary Shelley – anche lui fan da quando è ragazzino del libro (come Guadagnino con Queer) e finalmente alla regia del progetto.
Che la letteratura sia terra di conquista è dunque la prassi per Hollywood e dintorni. Sia moderna e attuale, vincendo addirittura premi, come il Nickel Boys di RaMell Ross su opera di Colson Whitehead che ha conquistato nel 2020 il premio Pulitzer, restituendo un’inedita versione con l’immedesimazione del punto di vista soggettivo nella regia del film, rendendo la prima persona quanto più “prima” sia mai stata. C’è poi una natura più biografica o storica, da cui prendono ispirazione tantissime pellicole che vogliono e possono puntare anche a dei riconoscimenti, soprattutto agli Oscar, vedi il recente A Complete Unknown tratto da Dylan Goes Electric! di Elijah Wald sulla svolta elettrica di Bob Dylan o il brasiliano Io sono ancora qui del regista Walter Salles incentrato sulla storia della famiglia di Marcelo Rubens Paiva e il padre desaparecido.
C’è poi una letteratura classica, di cui può far parte qualsiasi genere, fantasy o reale che sia, frutto della pura immaginazione. E quanto più è immenso o imponente o consistente il contenuto, tanto più si sceglie di veicolare le storie verso la cornice seriale, a meno che tu non sia Christopher Nolan e scelga di portare al cinema l’epopea dell’Odissea – mentre, ben più umilmente, Umberto Pasolini si è dedicato solo al sopraggiungere dell’Ulisse di Ralph Fiennes nella sua casa nel recente Itaca – Il ritorno, tratto sempre da Omero. Una volta c’erano sì le grandi saghe, dai successi altalenanti come la fortuna di Harry Potter, de Il Signore degli Anelli o di Hunger Games, ma con i loro “fratelli minori” non sempre altrettanto proficui - da Lo Hobbit sempre di J.R.R. Tolkien alla distopia young adult Divergent, di cui non venne nemmeno prodotto il capitolo finale. Adesso sono le piattaforme streaming o le istituzioni come la Rai a poter concedere una veste che si confà ai propri spazi, dal vero e proprio successo della tv generalista Il Conte di Montecristo, a Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa per Netflix, fino a La ruota del tempo con i suoi quattordici tomi arrivati alla prossima terza stagione su Prime Video e il racconto generazionale di Pachinko su AppleTV+. Con Harry Potter che, tra l’altro, più di vent’anni dopo il primo film La pietra filosofale diventa una serie per HBO.
Un modo per assicurarsi che ogni progetto, soprattutto seriale, diventi una hit se lo è intanto inventato Reese Witherspoon, venduto insieme alla sua casa di produzione Hello Sunshine per 900 milioni di dollari nel 2021. Tutto nasceva col suo club del libro da 3 milioni di follower su Instagram: fondato nel 2017 e dal nome più che esplicativo, il Reese’s Book Club vede ogni mese l’attrice scegliere un libro di cui già si era assicurata i diritti d’autore dagli editori per poi svilupparlo in una serie o un film. L'idea è geniale perché da una parte la strategia alza la richiesta di acquisto dei romanzi, dall’altra, osservando l’andamento dell’apprezzamento del racconto, la casa di produzione agisce investendo cifre e forze per la realizzazione di un progetto audiovisivo commisurate al gradimento. Così nasce un successo come Big Little Lies, che da miniserie da un’unica stagione sta attendendo l’inizio della produzione della terza. Il bisogno di Witherspoon di una maggiore e più variegata rappresentazione femminile sullo schermo ha contribuito a un aumento dell’interesse sia letterario che cinematografico/seriale per protagoniste donna, oltre a definire inedite traiettorie di marketing per la loro vendita e diffusione. Forse il piano è stato architettato da Witherspoon proprio perché l’attrice stessa ha recitato in rovinose trasposizioni di pilastri letterari come Nelle pieghe del tempo, un libro per ragazzi di Madeleine L’Engle pubblicato nel 1963 e riproposto nel 2018 in una catastrofica versione live-action dalla Disney. Insomma, da La Divina Commedia a Wicked, gli adattamenti sono il pane quotidiano di una produzione cinematografica e seriale che sa che non si deve mai essere meglio o peggio del libro, ma semplicemente diversi.