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"Oh, Canada": finzione e memoria nel cinema di Paul Schrader

Jacob Elordi e Richard Gere interpretano lo stesso personaggio tra passato e presente

Oh, Canada: finzione e memoria nel cinema di Paul Schrader Jacob Elordi e Richard Gere interpretano lo stesso personaggio tra passato e presente

Non è un caso che Paul Schrader per parlare di vecchiaia, memoria e emozioni nel suo Oh, Canada si rifaccia attraverso il protagonista Leonard Fife - interpretato da giovane da Jacob Elordi e da adulto da Richard Gere - a quanto detto da Susan Sontag nel saggio Davanti al dolore degli altri. Il suo personaggio è di fatto un fotografo, un documentarista, che si trova per la prima volta dall’altra parte, ad essere l’oggetto desiderato dall’obiettivo. È la sua malattia che vediamo, la sua sofferenza, la sua ricerca nei meandri dei ricordi che dovrebbe tirare fuori una qualche verità a cui, forse, non si arriverà mai. Non certo alla fine del film. «La gente non si assuefà a quel che le viene mostrato a causa della quantità di immagini da cui è sommersa. È la passività che ottunde i sentimenti», scriveva la scrittrice e filosofa statunitense, e Leonard e chi gli sta attorno in quegli ultimi giorni della sua vita non possono certo rimanere indifferenti davanti a ciò che l’uomo sta cercando di raccontare. 

Ma cos’è che, dunque, sta cercando di raccontare? Il passato, un testamento. Vuole guardare fisso negli occhi della moglie Emma, interpretata da Uma Thurman, e dirle che razza di uomo ha sposato. Il problema, e l’intrigante ambiguità del film, è che non lo scoprirà mai. Né lei, né gli spettatori. Oh, Canada sperimenta con la percezione della memoria e come sia malleabile prima di tutto quando sono i soggetti protagonisti a doverla far rivivere, secondo poi quanto possa essere rivisitata a seconda degli anni, delle malattie subite e delle persone che riportano gli stessi fatti, ognuno in maniera diversa. Di come siano solo le immagini, quelle fisse e riprese, l’unica resistenza possibile. Uno spiraglio di verità perché riprendono esattamente cosa accade all’esterno, che è ciò che fa il documentarista col proprio lavoro. Anche lì, però, chi conosce bene il mezzo, sa che dietro si nasconde sempre un briciolo di inganno, un pertugio di finzione; che non esiste nulla di più maneggiabile e contraffatto di un’immagine cinematografica. 

Oh, Canada è tutto così. Si seguono le parole di Gere, la fisionomia di Elordi, si ricostruisce il passato del personaggio di Fife, ma ben presto si inizia a dubitare di qualsiasi sequenza venga proposta allo spettatore. Il protagonista confonde i ricordi, li modifica, li sovrappone. E questo ce lo dice una voce esterna, la compagna di vita e musa Emma. Ma quindi a chi dovremmo credere? Alla donna che, lucidamente, è convinta che l’uomo sia in preda ai deliri della malattia e della stanchezza o a Leonard che giura che ciò che sta raccontando è la realtà, anche se al pubblico stesso finisce per sembrare alterata. Sono segreti o è finzione? Nel cinema di Schrader, così come nell’ultimo film presentato in anteprima al festival di Cannes, la verità è sempre soggettiva e la camera contribuisce a riproporre il proprio occhio, la propria visione del mondo. Per questo, Oh, Canada, non può essere una storia lineare. Le narrazioni di Fife non possono essere attendibili ed è lì che risiede il loro fascino. Perché davanti all’obiettivo si può essere veri, nudi, autentici più di quanto si sia mai stati. E se anche nella vita vera si è stati degli imbonitori? Dei falsi e menzogneri che hanno piegato la realtà alla propria volontà? È ciò che Paul Schrader ha fatto.