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Dopo le pellicce, PETA si schiera contro lana, pelletteria e piumini

Ma questa volta sarà più difficile convincere i brand ad eliminare i materiali animali

Dopo le pellicce, PETA si schiera contro lana, pelletteria e piumini Ma questa volta sarà più difficile convincere i brand ad eliminare i materiali animali

L’organizzazione no-profit per i diritti degli animali PETA - People for the Ethical Treatment of Animals - ha iniziato la sua guerra al sistema moda negli anni ’80. Tramite immagini e proteste accattivanti attaccava l’utilizzo di pellicce in passerella, illustrando il pubblico di massa alle violenze che subivano gli animali da cui provenivano i materiali per crearle. Dopo più di 40 anni, la fondatrice di PETA, Ingrid Newkirk, ha ufficialmente dichiarato vittoria contro le pellicce, nonostante reputi il lavoro della sua azienda nella fashion industry ancora incompiuto: i prossimi obiettivi saranno lana, pelletteria e piumini, materiali derivati dagli animali che nella coscienza comune non sono ancora riconosciuti come frutto di violenza sugli animali. Macellazioni, spiumature in vivo e mulesing - una pratica chirurgica che comporta l’asportazione di una parte della pelle della pecora - sono solo alcuni dei metodi che PETA si sta impegnando ad eliminare definitivamente.

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Le campagne mediatiche che hanno reso il lavoro di PETA famoso nel mondo sono caratterizzate da uno spiccato senso ironico, frasi ad effetto e testimonial della portata di un qualsiasi brand di lusso. Lo shooting «I’d rather go naked,» che ha immortalato nel corso di trent’anni il corpo nudo di personaggi di spicco come Pamela Anderson, Christina Applegate, Elisabetta Canalis ed Alicia Silverstone rappresenta grazie alla sua efficacia un vero e proprio esempio da seguire per le aziende pubblicitarie, allo stesso livello di quella delle «Lettuce Ladies,» che ritraeva le ragazze Playboy in costumi a forma di foglie di lattuga per propaganda vegana. Mentre queste campagne sono state ampiamente apprezzate dal pubblico, altre hanno raggiunto la fama perché riconosciute come troppo esplicite o controverse, come «Tua mamma uccide gli animali,» destinata ai bambini, «L’olocausto nel tuo piatto,» che paragonava i campi di concentramento nazisti agli allevamenti intensivi, ed «È morto per i tuoi peccati,» che invece di raffigurare Gesù Cristo illustrava l’immagine di un maiale. «Stiamo lavorando duramente per svegliare la gente,» ha spiegato Newkirk a BoF. «La pelliccia è ormai ovvia, la pelle lo è sempre di più... la lana è la più difficile.» Mentre sono stati numerosi i brand che hanno finalmente aderito al ban sulle pellicce in passerella e in atelier, come Calvin Klein negli anni ’90, Stella McCartney nel 2001 - il brand si è proclamato fur free dal primo giorno del lancio - Tommy Hilfiger e Ralph Lauren a metà degli anni 2000, e l’intero gruppo Kering nel 2017, per la fondatrice di PETA la strada verso la completa eliminazione degli abusi contro gli animali nella moda è ancora lunga. «Alcune aziende pensano che forse, se smettono di fare le pellicce, noi possiamo accontentarci,» ha detto Newkirk. «Siamo ancora attivisti e il punto è che siamo qui per cambiare l’industria, e la cambieremo.» 

«Se guardiamo a dove il maggior numero di animali soffre di più, il cibo è in cima alla lista, ma poi c'è l’abbigliamento,» ha spiegato Newkirk. Come nel caso della pelliccia, convincere i marchi di moda a smettere di lavorare con i fornitori che utilizzano pratiche violente e abusi contro gli animali per pelletteria, lana e piumaggio richiederà diverso tempo, ma ad oggi esistono già alcuni brand che si sono mossi verso tecnologie più etiche: Ganni ha dichiarato che smetterà di implementare pelle vergine; Kering, Prada ed Hermès, sulla stessa scia di Stella McCartney, stanno studiando bio-materiali sostitutivi a quelli animali, come il mycelium dei funghi, anche se per adesso la produzione di queste “nuove scoperte” è molto difficile e costosa, e a volte richiede una certa quantità di plastica.