
Il lusso può fare soldi decrescendo?
Il vero problema della moda è una questione economica

21 Febbraio 2025
Il lusso non è più sostenibile. Non è solo un problema di sostenibilità ambientale: la forte crisi delle vendite è la prova di quanto il modello economico applicato alla supply chain in questo momento provochi più danni che benefici. Come in tutte le industrie incentrate sul profitto, anche la moda e il lusso basano i propri modus operandi sul concetto micro e macroeconomico delle economie di scala: più la produzione aumenta, minori sono i costi e maggiori i profitti. Il che potrebbe anche funzionare, se tutto ciò che si produce venisse venduto - ma sappiamo che non è così. Non solo i grandi gruppi del lusso siedono su miliardi di merce invenduta il cui stoccaggio e smaltimento hanno costi astronomici, ma la svendita di questo invenduto tramite i canali off-price è diventata una voce nella contabilità di molti brand. Una massa di merce invenduta che aggrava il problema delle vendite oggi vicine a un minimo storico soprattutto perchè lo spending cinese che aveva fatto moltiplicare i volumi di vendita ora si è arrestato. Molti prodotti non venduti sono poi spinti nei mercati grigi (come avevamo visto l’anno scorso con la proliferazione dei sample sale) che però nell’ultimo anno si sono trovati soffocati dai prezzi elevatissimi - tutti gli altri sono destinati semplicemente alle discariche. Il problema è che, seguendo la filosofia dell’economia di scala e, per dirla semplicemente, producendo in massa la maggior parte dei brand di lusso continua a produrre una quantità spropositata di merce inseguendo il fantasma capitalistico della crescita infinita, che deve verificarsi ogni trimestre. Ma il problema è questo: come fare a continuare a crescere, producendo sempre di più, pretendendo margini teoricamente sempre più alti in un’economia le cui risorse sono tutto sommato finite? Secondo diverse teorie, ventilate negli ultimi anni, ma a cui nss magazine sta cercando di dare una prima forma concreta per il grande pubblico, la moda dovrebbe frenare la corsa alla crescita che, oltre a essere un modello economico per altro obsoleto, rappresenta un mindset di tutti i top manager. E se ora la crisi delle vendite ha dimostrato tutta la fragilità di un sistema già di per sé gonfiato potrebbe essere arrivato il momento di guardare al sistema dal basso verso l’alto.
Il concetto di “degrowth” (in italiano decrescita) si riferisce a una critica della crescita capitalista che enfatizza l’organizzazione dell’economia intorno ai bisogni umani piuttosto che agli interessi del capitale, sostenendo un’anti-accumulazione e de-commodificazione come strumenti per affrontare le questioni dell’eccesso di produzione e dell’appropriazione coloniale. Nel panorama della moda, l’applicazione di questo modello economico diventa meno radicale e più incentrata sui volumi di produzione. Come spiegato nel report di Textile Exchange Reimagining Growth Landscape Analysis che si riferisce alle economie nazionali, la teoria della decrescita suggerisce che ridurre in modo controllato produzione e consumi sarà essenziale non solo per una questione ambientale, ma anche sociale. Non si tratta di ridurre immediatamente i volumi o di compromettere i PIL nazionali, quanto di rallentare e contenere il flusso di risorse materiali ed energetiche entro i limiti planetari, garantendo al contempo standard sociali minimi. Un aspetto cruciale della teoria è che questa riduzione non deve essere applicata indiscriminatamente o in modo universale: il focus principale è sui Paesi ad alto reddito, come quelli occidentali, che storicamente hanno contribuito in misura maggiore al consumo eccessivo di risorse. D’altra parte, le economie in via di sviluppo hanno ancora margine di crescita per soddisfare i bisogni fondamentali delle proprie popolazioni. Essenzialmente, la teoria della decrescita si focalizza su una crescita lenta ma “felice”, allontanandosi dalla concezione puramente numerica e matematica di crescita, fondamentale in un sistema capitalistico, che in uno modo o nell’altro va ad impattare negativamente sia il pianeta che la filiera.
Applicando questo concetto al sistema della moda e del lusso, emerge chiaramente come la problematica dell’iper-produzione non sia solo un rischio ambientale, ma anche un boomerang economico che sta già manifestando i suoi effetti negativi. I dati più recenti sul settore confermano l’urgenza di un cambiamento: attualmente, l’industria della moda è destinata ad aumentare le proprie emissioni del 2,7% ogni anno, con una crescita che, se mantenuta, raddoppierà le emissioni massime consentite per rimanere all’interno del limite di 1,5°C stabilito dall’Accordo di Parigi entro il 2030. Il quadro allarmante delineato da McKinsey & Company e Global Fashion Agenda evidenzia come l’impatto ambientale della moda sia ancora lontano dall’essere sotto controllo, nonostante alcuni progressi settoriali. Anche le stime dell’Apparel Impact Institute, sebbene leggermente più ottimistiche, prevedono un aumento delle emissioni del 40% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2022. Ridurre i volumi di produzione mantenendo l’esclusività, promuovendo modelli circolari e investendo in materiali sostenibili rappresenta quindi una delle poche strategie plausibili per un settore che, pur essendo intrinsecamente legato al concetto di desiderabilità e rarità, ha seguito finora logiche produttive assimilabili a quelle del fast fashion. D’altronde, gli unici brand usciti indenni dalla crisi del lusso sono quelli appartenenti all’ultra-lusso, che già da anni applicano una strategia di semi-decrescita. Il semplice fatto che Hermès non offra a tutti i clienti la possibilità di acquistare una Birkin o una Kelly fa sì che la produzione di queste borse sia nettamente inferiore rispetto a quella di una Jackie di Gucci o di una Galleria di Prada, che invece subiscono variazioni stagionali in base al tema creativo delle collezioni. In questo modo, Hermès riesce a mantenere un basso tasso di produzione rispetto ai competitor, incrementando al contempo anno dopo anno la desiderabilità del brand.
Fast fashion is the reason it’s impossible to find quality clothes for accessible prices because they’ve pushed the standards down for mass market brands in favor of speed. They cater to those who can afford to shop weekly, not people who need long lasting, accessible clothing.
— Lakyn Thee Stylist (@OgLakyn) February 21, 2024
L’iper-produzione, l’impiego massiccio di tessuti fossili e la gestione inefficace dei rifiuti pongono l’urgenza di un cambiamento radicale, orientato a ridurre l’uso delle risorse e i rifiuti per mantenersi entro i limiti planetari. Gli obiettivi fissati sia dai governi sia dagli stessi attori del settore impongono una drastica inversione di rotta: ridurre l’impronta complessiva del settore del 50% entro il 2030, in linea con l’Accordo di Parigi e le raccomandazioni dell’IPCC, che prevedono un taglio delle emissioni globali del 45% rispetto ai livelli del 2010 entro lo stesso anno, per poi raggiungere la neutralità carbonica entro il 2050. Tuttavia, le proiezioni attuali dipingono un quadro opposto: secondo il Global Fashion Agenda, il volume produttivo dell’industria potrebbe aumentare dell’80% entro la fine del decennio, passando dagli attuali 100 miliardi di capi prodotti ogni anno a circa 180 miliardi, vanificando ogni sforzo di sostenibilità. Walter D’Aprile, co-fondatore e editor-in-chief di nss magazine, nella sua intervista a The Stanza Media ha sottolineato come la questione dell’iper-produzione debba essere affrontata attraverso un cambio di paradigma radicale. «Dobbiamo fermare la sovrapproduzione. E forse io sono un sognatore, ma vorrei cambiare il modello di business perché ora siamo ossessionati da quanti pezzi vendiamo. Quindi produciamo sempre di più dello stesso articolo, invece dovremmo ragionare su come vendere più volte tale articolo.» Il problema della moda di lusso non è solo che si produce troppo, ma che il sistema è ancora interamente costruito sulla logica della crescita quantitativa, ignorando il potenziale di un’economia più circolare e duratura. È ormai necessario spostare il focus dal numero di pezzi venduti alla possibilità di vendere più volte lo stesso articolo, trasformando il modello di business da un’economia basata sul consumo lineare a un sistema più dinamico e relazionale. I brand devono vendere relazioni, non prodotti, attraverso la creazione di contenuti.
È ormai evidente una totale discrepanza tra gli obiettivi dichiarati e la realtà produttiva, che riflette un’incapacità sistemica di adottare cambiamenti radicali. Emblematico è il commento di James Reeves in risposta all’argomentazione di Kohei Saito sulla necessità di un cambiamento sistemico per affrontare efficacemente il cambiamento climatico e le disuguaglianze globali: «Sarà un’idea scioccante per molti uomini d’affari». Un’affermazione che trova riscontro nel sondaggio PwC del 2024, secondo cui quasi la metà degli amministratori delegati a livello globale ritiene di dover reinventare il proprio business per rimanere competitivi nei prossimi dieci anni. Tuttavia, questa necessità di reinventarsi appare ancora confinata all’interno di logiche aziendali tradizionali, orientate più alla modifica dei modelli di business esistenti che a un vero cambiamento strutturale del sistema. Proprio qui la decrescita potrebbe offrire un’alternativa concreta: non una semplice riduzione dei costi o un riadattamento marginale, ma una ridefinizione completa delle priorità e delle strategie, ponendo al centro la sostenibilità e la resilienza economica di lungo termine. È stata questa la ragione principale per cui il 2024 è stato un anno estremamente caotico per il panorama del lusso: il continuo turnover dei direttori creativi è stato solo un sintomo di un problema molto più profondo e strutturale. La stragrande maggioranza dei grandi gruppi, negli ultimi 12 mesi, ha modificato e stravolto le proprie strategie d’investimento. Basti pensare a Tapestry, che non solo ha abbandonato l’acquisizione di Capri Holdings negli scorsi mesi, ma, secondo quanto riportato da Vogue Business, ha recentemente deciso di vendere Stuart Weitzman per 105 milioni di dollari. Anche Kering, all’inizio del 2025, ha scelto di vendere tutti i suoi outlet per ridurre il debito, un investimento che però, come aveva riportato Business of Fashion, era tra le divisioni più lucrative del gruppo.
Attualmente, la maggior parte delle iniziative nel settore moda si limitano a una “circolarità” che, nella migliore delle ipotesi, può essere definita solo tangenzialmente vicina alla decrescita. Come evidenziato nel Circularity Gap Report, gli sforzi si concentrano principalmente sul miglioramento dell’efficienza nelle fasi iniziali della supply chain e sullo sviluppo di modelli che mantengano i prodotti in circolazione — riparazione, noleggio, rivendita e riutilizzo. Ma tali tentativi, ancora agli albori, non riescono davvero a sfidare il sistema dominante di produzione lineare take-make-waste. Angela Baidoo per il The Impression sottolinea come persino una versione diluita della decrescita fatichi a scalare, un’ulteriore dimostrazione di come la dura realtà dei mercati capitalistici soffochi qualsiasi sfida seria al paradigma produttivo esistente. La decrescita, se realmente applicata, significherebbe produrre meno, ma con standard qualitativi più elevati, alzando l’asticella delle condizioni di lavoro e della cura in ogni fase della filiera. Come afferma Olya Kuryshchuk, fondatrice ed editor-in-chief di 1 Granary, «significa prendersi cura dei lavoratori e del pianeta, non produrre senza considerare prima i costi umani ed ambientali». Un approccio che, pur apparendo semplice, si scontra con un’industria in cui la crescita è stata per decenni sinonimo di successo. Ma, come osserva la stessa Kuryshchuk, per i brand indipendenti non esiste un legame così forte tra espansione e successo: le nuove generazioni di creatori devono interrogarsi con urgenza su cosa significhi oggi avere un business di moda sostenibile, sfidando le strutture obsolete e cercando modelli creativi che integrino l’impatto ambientale e sociale nei loro processi produttivi. È necessaria un’analisi critica anche su chi e cosa si decide di far crescere. In un’industria in cui l’espansione è vista come l’unico metro di valutazione, occorre ridefinire i parametri del successo, mettendo in discussione i benefici di una crescita illimitata.
oh how i love the artistry, craftsmanship, and creativity of fashion but my hate for capitalism is just growing larger everyday
— /J\ (@_joulian_) October 15, 2024
Finora, tutti i business che hanno adottato il concetto di decrescita nel loro modello economico si sono basati più sugli ideali sostenibili che sulla dialettica anti-capitalista della teoria. Nel 2022, Vogue Business aveva scritto del primo brand fondato su principi di decrescita, Early Majority, focalizzato sull’outerwear e capace di debuttare con una collezione di sette pezzi “sovversivi” pensati per essere quattro stagioni, a seconda di come si combinavano le diverse parti dei capi. In pratica, comprare meno ma comprare meglio. Tuttavia, come evidenziato sia dalla pagina Instagram ufficiale sia dall’assenza di una presenza sul web, il brand non è riuscito a sopravvivere oltre i due anni, sebbene lo scorso agosto abbia comunicato che «è solo un arrivederci e non un addio». Proprio per questo il modello di decrescita resta una grande incognita. Tra la mancanza di evidenze empiriche e lo stigma che molti brand nutrono verso il discorso e l’adozione di tale modello — come sottolineato sia da Aerielle Rojas nel suo panel sull’implementazione della decrescita nel panorama della moda alla Global Fashion Conference, sia dal report di Textile Exchange — non esiste la certezza che l’utilizzo di questo approccio economico possa effettivamente portare vantaggi a tutti gli attori coinvolti. D’altronde, i marchi dell’ultra-lusso (come Hermès e Chanel), pur adottando una retorica vagamente affine alla decrescita, hanno anche aumentato i prezzi, andando fondamentalmente contro il concetto anti-capitalistico alla base della teoria. Al contempo, è ormai innegabile che il modello di business dell’intero mondo del lusso non risulti più adeguato: con il passare del tempo, l’industria, nel suo complesso, si avvicina sempre più a una precarietà senza precedenti.