
Quindici anni senza Alexander McQueen
Ricordando il designer che infondeva il ready-to-wear che sapeva di couture
11 Febbraio 2025
L’11 febbraio 2010, alla vigilia del funerale della madre, Lee Alexander McQueen decise di togliersi la vita nella sua abitazione di Londra. Nato nell’East End, ultimo di sei figli, lasciò la scuola a 15 anni e iniziò a lavorare come apprendista da Cornelius O’Callaghan, imparando in fretta, geniale e veloce. Poi l’ingresso da Red or Dead, dove stupì per la sua bravura, e la decisione, nel 1989, di prendere un volo per Milano senza alloggio, senza conoscere la lingua, senza soldi. In meno di una settimana era già diventato l’assistente di Romeo Gigli. Lì imparò la complessità della sartoria. Come ricorda lo stilista italiano, dopo aver fatto rifare una giacca più di tre volte a McQueen, la scucì nuovamente e trovò all'interno della fodera la scritta: «Fuck Romeo». Tornò a Londra per riprendere gli studi, dove comprese che poteva utilizzare argomenti non strettamente riconducibili alla moda per ridefinirla e farla evolvere. Bussò alla porta di Bobby Hillson, direttrice del corso di moda alla Central Saint Martins, e ottenne un posto nel suo prestigioso programma. Sua zia si offrì di pagargli la retta. Il 16 marzo 1992, nelle baracche del Duca di York a Londra, fu presentata la sua collezione di laurea: Jack the Ripper Stalks His Victims. La metamorfosi del prêt-à-porter stava iniziando.
L'editrice Isabella Blow, seduta in prima fila alla sfilata di McQueen, rimase sconvolta dal talento del giovane designer. Voleva tutto. Descrisse la collezione come moderna ma classica. Tra i capi, McQueen aveva creato un cappotto nero rivestito di capelli umani con una fodera interna rosso sangue «così da sembrare un corpo insanguinato». Parlava di sabotaggio e tradizione, bellezza e violenza. Isabella Blow fu la prima a riconoscere il genio di McQueen, chiamò la madre dello stilista e le disse che aveva dato alla luce un precursore degli anni 2000. Poi, senza esitazioni, comprò l’intera collezione. Da subito, McQueen seppe usare le passerelle per affrontare temi controversi e raccontare storie anche nelle collezioni di prêt-à-porter, tingendole di couture, edulcorando e rappresentando molto più che un semplice prodotto. I pezzi erano parte di un grande mosaico, non c’era interesse nel dover proporre un capo destinato esclusivamente alla vendita o alla portabilità.
La curiosità onnivora di McQueen nel tempo lo portò a filtrare immagini della Spagna dei matador e della Controriforma, dei filibustieri della guerra di corsa, degli indigeni dell'Amazzonia, dell’Inghilterra sanguinosa e violenta della guerra tra York e Lancaster, fino all'Oriente del Kamasutra. McQueen era intriso di rivoluzione e turbamento fin dagli albori, quando comprava i tessuti con i sussidi di disoccupazione statale (motivo per cui, nelle prime interviste dopo i suoi show, non mostrava il viso). Con le sue prime collezioni pubbliche arrivò la fama ma non il denaro, come disse lui stesso. La collezione Highland Rape (Autunno/Inverno 1995) fu una delle più celebri e scandalizzò la critica con abiti strappati, frantumati e macchiati, indossati da modelle che riportavano ferite sul corpo come se avessero appena subito una violenza. Fu accusato di misoginia, di voler esaltare la violenza, ma l’intento di McQueen non era quello di spettacolarizzare l’orrore: lo show rappresentava l’aggressione culturale e territoriale subita dalla Scozia durante l’unificazione con l’Inghilterra. Con un escamotage stilistico d'impatto, McQueen ha dunque voluto raccontare la storia della sua famiglia, discendente dell’Isola di Skye. La sua era una rappresentazione dolce e feroce di un massacro, la stessa che i suoi antenati, giacobiti scozzesi, subirono durante la guerra di indipendenza. «Non mi interessa compiacere. Voglio far riflettere», dichiarò McQueen all’epoca, dimostrando come la moda potesse diventare uno strumento di critica sociale.
Oltre alle critiche arrivò la fama internazionale, il mondo iniziò a conoscere Alexander McQueen e attirò l’attenzione di Bernard Arnold, proprietario di LVMH, che gli propose di diventare il direttore creativo di Givenchy. La vita del designer cambiò: da outsider, ribelle, si ritrovò a gestire una delle maison francesi più celebri al mondo. Nel 1997 approdò a Parigi; aveva un appartamento a Place des Vosges, un autista personale, veniva trattato come un re nell’atelier ma rimase sempre se stesso. Portò con sé la sua factory, gli amici che lo avevano accompagnato e aiutato lungo il percorso. Se nell’atelier Monsieur Givenchy si muoveva con compostezza ed eleganza, il gruppo di McQueen era esuberante ma autentico. Il debutto alla guida della maison avvenne per la stagione primaverile couture del 1997, intitolata Search for the Golden Fleece. La collezione fu concepita in solo tre mesi e proponeva toni del bianco e dell’oro, una palette ispirata all’identità di Givenchy, tailoring impeccabile per donne dal fascino fatale e corsetti studiati per esaltare la silhouette femminile. Numerosi capi erano impreziositi da ricami dorati in rilievo che richiamavano un’estetica sia militare che zarista. Tra i look spiccava anche una camicetta trasparente, che poteva essere un tributo alla celebre camicetta Bettina, primo grande successo della maison.
Nonostante le collezioni di McQueen per Givenchy siano tutt'ora ricordate come capolavori, ai tempi la critica non accolse il suo lavoro con così tanta benevolenza. In merito alla prima collezione di McQueen per la maison francese Vogue scrisse: «È giusto dire che, in questo caso, lo stilista non è riuscito a conciliare le forze opposte che aveva scatenato. La semplice eleganza di un abito ‘Maria Callas’ o di un mantello arricciato con una Madonna rinascimentale e il Bambino dipinti sulla schiena viene compromessa da accessori come corna di montone (almeno un paio provenienti dal gregge di Isabella Blow) e anelli al naso in stile bovino. Breakfast at Tiffany’s questa collezione non lo era di certo». Il magazine citò anche alcuni estratti di un’intervista che McQueen rilasciò a Le Figaro in cui dichiarò di non avere «alcun rispetto per Hubert de Givenchy» e di aver accettato la posizione «perché amo la moda». Da Givenchy il designer, ormai conosciuto in tutto il mondo come un mito, ruppe “la quarta parete” all’interno dell’atelier: voleva conoscere tutte le persone che lavoravano ai suoi capi, si rifiutò di mangiare nei ristoranti esclusivi e chiese invece se poteva pranzare nella mensa insieme agli altri dipendenti.
Le collezioni ready-to-wear di Alexander McQueen conobbero un approccio sempre più elevato, come nel caso della Spring Summer 1999. Dal titolo N.13., nello show la passerella si trasformò in una vera e propria opera d’arte performativa. «It wasn’t a fashion show. It was performance art,» scrisse questa volta Vogue. Fu la prima sfilata in cui Alexander McQueen collaborò con lo scenografo Joseph Bennett, insieme al quale diede vita a una delle immagini più note della moda del XX secolo: Shalom Harlow, posizionata su una piattaforma rotante, venne dipinta da due bracci robotici che spruzzavano sul suo abito bianco schizzi di vernice nera e gialla. I bracci meccanici, con movimenti decisi à la McQueen, sembravano seguire una coreografia. La tradizione sartoriale entrava in contatto con la tecnologia, un confine che Alexander McQueen avrebbe esplorato più volte nel corso della sua carriera.
Agli inizi degli anni 2000, la pressione cresceva e la mole di lavoro aumentava. McQueen si trovava tra Londra e Parigi e lavorava a quindici collezioni all’anno per Givenchy e McQueen. Nel 2001, le strade tra il designer inglese e la maison francese si interruppero e il gruppo Gucci acquisì il 50% del brand di McQueen. Il designer si dedicò esclusivamente alla sua linea producendo sfilate irripetibili. La fashion industry intera faceva di tutto pur di assistere alle presentazioni di McQueen, tanto che durante le sue sfilate gli studenti degli istituti d'arte e di moda si imbucavano causando sempre un grande trambusto. In Voss Spring Summer 2001 il pubblico era persino protagonista, riflesso nelle pareti di vetro specchiato. Nella scatola di vetro di fronte a loro le modelle si muovevano come creature intrappolate in un’installazione onirica e inquietante. Al termine, il cubo al centro della stanza specchiata aprì le sue pareti rivelando una donna in carne completamente nuda, coperta da una maschera di piume e di insetti. La complessità delle strutture dei capi e l’attenzione a ogni acconciatura superavano qualsiasi altra collezione ready-to-wear dell’epoca. Si trattava di una couture rivestita da ribellione, non era finalizzata a un target bensì era uno spettacolo completo e completamente diverso dal precedente. Ogni modella era un personaggio con un’identità costruita nei minimi dettagli, in grado di esistere autonomamente all’interno di una storia a sé.
Negli anni, il lavoro di McQueen si spinse oltre le passerelle e gli atelier, influenzando anche l'arte, la fotografia e l'editoria. Nel 1997, Alexander McQueen e il fotografo inglese Nick Knight avviarono la loro prima collaborazione insieme. Una fotografia di Devon Aoki in abiti McQueen presenta un effetto straniante, dovuto a una post-produzione che trascende il realismo. L'attrice appare come una geisha bionica, con un occhio velato di blu e uno squarcio sulla fronte tenuto insieme da una spilla da balia da cui germogliano fiori di ciliegio. L’anno successivo, il duo torna a sfidare i canoni di bellezza con il magazine Dazed and Confused, per cui McQueen si presta come guest editor. Il numero si chiamava Fashion Able? e i soggetti dell’editoriale erano persone disabili. Tra questi, il ballerino David Toole, la cui malformazione alle gambe aveva costretto i medici all’amputazione. L’avvento pionieristico dell’inclusione era intrinseco nella mente di McQueen, non ancora dettato dalle richieste della società o del mercato ma puro e autentico. Contemporaneamente, la femminilità sviluppata da McQueen nelle sue collezione non era solo dark, non era un prodotto del feticismo: era qualcosa di fiabesco e poetico che aveva come unico obiettivo la seduzione.
La sua ultima collezione, Plato's Atlantis Spring Summer 2010, è l'ultima interamente pensata da Lee Alexander McQueen prima della sua morte. Si trattava della prima diretta streaming di moda (fece saltare il sito per i troppi accessi); segna il debutto di Bad Romance di Lady Gaga e la prima volta che dei robot furono utilizzati per riprendere un live show. A distanza di quindici anni dalla scomparsa di Alexander McQueen, è impossibile non chiedersi come sarebbe la moda oggi se fosse ancora vivo. Il suo lascito non è solo immenso e indissolubile, è qualcosa di autentico, che appartiene a chi sa guardare oltre. Ogni creazione, ogni gesto, era un riflesso di se stesso. Ha trasformato l'autoreferenzialità in un linguaggio che non fosse mai ridondante, piuttosto magnificamente disturbante e seducente. Ha cercato di esplorare la fragilità, il vuoto, una percezione della realtà che pochi hanno il coraggio di affrontare. La sua era una visione estrema, simile a quella dei grandi poeti maledetti che, raccontando il lato oscuro della bellezza, cavalcano quel confine sottile tra l'orrore e la meraviglia.