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Al lusso conviene risparmiare sulla sostenibilità?
Intervista a Nicole Rycroft, Founder ed Executive Director di Canopy
31 Gennaio 2025
Questa settimana Stella McCartney ha acquistato la sua quota di partecipazione da LVMH ed è tornata indipendente. Per alcuni, la notizia è arrivata dal nulla come un fulmine a ciel sereno, per altri invece era prevista: dopo le elezioni americane e l’inaugurazione del secondo mandato di Trump, i grandi gruppi del lusso (e in particolare proprio LVMH) hanno cominciato a mostrare il proprio consenso per le politiche del nuovo Presidente degli Stati Uniti. Primo tra tutti Bernard Arnault, capo di LVMH che dopo aver presenziato alla cerimonia di insediamento di Trump ha lodato la nuova direzione del Paese. In Francia, ha affermato il CEO del gruppo, «dovremmo fare come gli Stati Uniti e nominare qualcuno che riduca la burocrazia». Ecco dunque che si spiega perché Stella McCartney, designer paladina della sostenibilità, potrebbe aver deciso di togliere il proprio brand dalle mani di un magnate che sostiene un capo di stato convinto che il cambiamento climatico sia una «bufala». Il caso McCartney non è isolato perché sempre più aziende, come riporta il nuovo report di McKensey & Co., The State of Fashion 2025, stanno diminuendo i propri sforzi per l’ambiente: la sostenibilità è una priorità solo per il 18% dei dirigenti di moda di tutto il mondo, un dato ben minore rispetto al 29% dell’anno passato. Il fenomeno si sta allargando a macchia d’olio anche se, come dimostrano no-profit come Canopy, se eliminare le pratiche sostenibili dalla propria azienda può sembrare inizialmente una buona idea per i fondi, non è una soluzione efficace a lungo termine.
Diverse aziende stanno scegliendo di dedicare meno attenzione al proprio impatto ambientale, nonostante stiano entrando in vigore (specialmente in Europa) sempre più nuove direttive per incentivare la sostenibilità. Se fino a poco fa uno dei problemi più pressanti della moda era il greenwashing, ossia creare pubblicità ingannevole per attirare l’attenzione dei consumatori attenti all’ambiente, adesso si parla di greenhushing: per paura di venire criticati, brand e aziende tirano il freno sulle attività ecosolidali oppure le nascondono. La questione non è legata solo al marketing, bensì a tutte le attività centrali delle aziende - vengono impiegati meno fondi per le iniziative green, ridotti i team per lo sviluppo sostenibile oppure, come nel caso di Uniliver, la divisione per la sostenibilità viene direttamente accorpata ad altre. Per Nicole Rycroft, Founder ed Executive Director della no-profit Canopy, «è un errore considerare la sostenibilità come un “nice-to-have” quando, in realtà, è un imperativo commerciale». In un momento di gravi incertezze economiche e sociali come questo, «i consumatori si aspettano sempre più trasparenza e azioni significative». Nonostante tagliare i costi sulla ricerca ambientale possa sembrare produttivo per il futuro di un’azienda, la cosa migliore da fare sarebbe in verità l’investimento - e per fortuna qualcuno se n’è accorto. I migliori dirigenti, aggiunge Rycroft, «riconoscono che l'adozione di soluzioni sostenibili e circolari è la chiave per la resilienza e la crescita a lungo termine».
Per spiegare in che modo le aziende possono beneficiare dall’adozione di pratiche più sostenibili, la fondatrice di Canopy descrive alcuni degli step che i brand potrebbero prendere in considerazione per migliorare il proprio impatto ambientale - e di conseguenza la propria reputazione. Tra questi il passaggio a materiali di nuova generazione, o NextGen, alternative circolari create con residui agricoli e tessuti di scarto, che sono «scalabili, performanti, creano catene di approvvigionamento resilienti e a prova di futuro e riducono il rischio normativo», e investire nella circolarità. «Dalle piattaforme di rivendita ai programmi di ritiro - spiega Rycroft - i sistemi circolari consentono ai brand di estendere il ciclo di vita dei prodotti, soddisfare la domanda di sostenibilità dei clienti e sbloccare nuovi flussi di entrate». Infine, per rafforzare la fiducia dei consumatori (un tasso quantificabile che, secondo quanto emerso da un report di BoF, è il più basso dal 2005), le aziende devono aumentare la trasparenza, «un fattore chiave per le vendite nel mercato odierno».
I prossimi anni segnano una svolta decisiva per la sostenibilità in Europa. L’UE implementerà il Corporate Sustainability Due Diligence Directive (CSDDD) entro il 2027, una legge che richiederà alle imprese di tutti i tipi di svolgere attività per la prevenzione e la riduzione del proprio impatto sull’ambiente e sui diritti umani. A luglio 2024 è entrata in vigore l’Ecodesign for Sustainable Products Directive, una misura che mira a migliorare la circolarità, le prestazioni energetiche, la riciclabilità e la durata delle nuove produzioni. Le due direttive fanno parte di un più ampio pacchetto di legislazioni (che include anche il Digital Product Passport) che avranno un impatto radicale sulle supply chain di tutta Europa. La buona notizia, spiega Rycroft, è che le «normative riconoscono i brand che sono all'avanguardia nell'approvvigionamento sostenibile, creano conseguenze per quelli che sono in ritardo e creano le condizioni per l'introduzione di soluzioni, come la viscosa Next Gen prodotta da tessuti riciclati o gli imballaggi realizzati con la paglia». Oltre a produrre risultati positivi per l’ambiente, adottare un approccio sostenibile fa bene alle aziende di moda, sottolinea nuovamente la fondatrice di Canopy. «con le catene di approvvigionamento convenzionali sempre più volatili a causa della crisi climatica, l’irrigidimento delle normative e l'aumento delle aspettative dei consumatori», diventa praticamente l’unica alternativa.
Adottare pratiche ecosostenibili significa rendere l’azienda più forte e renderla pronta alle sfide che incontrerà negli anni a venire. Ciò che devono combattere veramente i brand sono le emissioni Scope 3, ossia tutto il carbonio rilasciato nell’ambiente da un’azienda nell’argo di un’intera produzione, dall’approvvigionamento dei materiali al fine vita degli articoli (cioè oltre la vendita). Rappresentano tra l’80% e il 90% delle intere emissioni prodotte dei brand di moda, perciò dalle no-profit come Canopy sono considerati il vero “mostro finale”. Per farlo, spiega Rycroft, le aziende non devono lavorare da sole, ma «dare priorità all’azione collettiva e a livello sistematico». Come sottolinea la fondatrice, salvaguardare l’ambiente vuol dire proteggere la biodiversità, senza la quale non potrebbero esistere tutti i materiali tecnici e ricercati che vantano così tanti brand di moda. A conferma dell’accessibilità dei materiali NextGen, Rycroft nomina alcuni dei più grandi pionieri di settore che stanno ridefinendo le regole del sistema, come Stella McCartney, Inditex, Ganni, il Gruppo H&M e Patagonia. «Naturalmente, ci sono alcuni marchi che stanno facendo progressi più lenti di quanto vorremmo, spesso a causa di preoccupazioni di costo mal riposte o di inerzia interna verso gli sforzi necessari per costruire catene di approvvigionamento. In definitiva, ciò riflette la mancanza di comprensione del fatto che la sostenibilità non è un centro di costo a breve termine, ma un creatore di valore a lungo termine».