Dovremmo usare la parola “archivio” con cautela
Intervista a Ilaria Trame, assegnista di ricerca presso il Centro di Ricerca Gianfranco Ferrè
28 Gennaio 2025
Joan Didion, nel suo libro L’anno del pensiero magico, dopo giorni di resistenza a seguito della morte del marito si lascia andare solo quando, tornando a casa, vede la giacca del compagno defunto appesa e le ritorna tutto alla mente: lui era ancora lì, in quegli abiti. Per quanto sembrerebbe banale, Didion ci ricorda dei valori immateriali degli abiti e della loro posizione storica nelle nostre storie personali e in quelle degli altri. Nella moda-intrattenimento dei nostri giorni amiamo ancora i manufatti per tutto quello che trasportano, un fenomeno che prende forma oggi attraverso il trend degli archivi di moda fai-da-te. Gli archivi portano con loro atteggiamenti rispettosi che fanno tirare un sospiro di sollievo e che danno il giusto valore, emotivo ed economico, a un complesso sistema che si concretizza in scarpe, giacche, camicie, ephemera, riviste. Moltissimi si avventurano nella condivisione e apertura, sica o virtuale, di spazi che fanno ricircolare oggetti che segnano, secondo il personale gusto del curatore, una traccia nella storia della moda. Ma spesso si sottovalutano le basi scientifiche della conservazione, che invece potrebbero rivelarsi utili quando si disegna la propria attività.
Gli oggetti ben progettati hanno un potere perpetuo: possono aumentare il proprio valore con il passare del tempo ed essere usati per raccontare storie, come quando il processo creativo parte dalla decostruzione di un capo preesistente e dal rimescolamento di strati di storia tipici da dj, portando alla nascita di nuove collezioni. Che siano vintage showroom, archivi di ricerca, archivi aziendali o raccolte private, queste memorie sono macchinari complicatissimi che funzionano contemporaneamente con mentalità da archeologo e da content creator. Ed è proprio dagli archivi e collezioni più istituzionali che dobbiamo prendere spunto per far diventare il lavoro della ricircolazione più rispettoso della metodologia che si cela dietro a chi tratta queste ricchezze.
Esistono oggi innumerevoli spazi, siano essi a livello della strada o nei cablaggi, che si dedicano con crescente interesse all'universo del lusso di seconda mano, trattandolo con la cura meticolosa e la narrazione sofisticata propria di una boutique di ricerca. E vi sarebbero innumerevoli sezioni da scoprire, da ordinare, come stanze di una grande dimora sconosciuta: il pubblico, il privato, coloro che attraggono, coloro che vendono e quelli che intrecciano tutto insieme in un unico gesto. Tutti, forse inconsapevolmente, uniti dal desiderio di preservare. Ma questa preservazione, ci si chiede, è mai davvero un atto pienamente consapevole? Lo abbiamo chiesto a Ilaria Trame, Assegnista di Ricerca presso il Dipartimento di Design del Politecnico di Milano e collaboratrice del Centro di Ricerca Gianfranco Ferré, dove lavora come archivista e contribuisce a progetti di ricerca legati all'archivio. Trame collabora inoltre con l'International Library of Fashion Research (ILFR) di Oslo, curata e fondata da Elise By Olsen, gestendo e preservando una vasta collezione di documenti, pubblicazioni e artefatti legati alla moda contemporanea.
Quali strumenti consideri indispensabili per il tuo lavoro?
Per quanto riguarda gli abiti, una menzione speciale va sicuramente ai guanti, il classico guanto bianco di cotone dell’archivista, estremamente performativo, anche se io uso molto quelli in vinile o nitrile che garantiscono una presa migliore e “più salda” rispetto al cotone (da non confondere con il lattice, che lascia la polvere bianca). La situazione cambia un pochino quando si maneggiano libri, documenti o comunque materiale cartaceo, in quanto risulta spesso rischioso maneggiare la carta con le mani velate perché non si ha la percezione della nezza del foglio, creando ulteriori rischi per la conservazione – come banalmente lo strappo. Per questi materiali, uno strumento fondamentale per il quotidiano sono le scatole d’archiviazione acid-free e le buste, anche quelle acid-free o anti polvere. La regola di base dell’archivista è quella di tentare di preservare i materiali per l’eternità: bisogna quindi fare di tutto per lavorare in quest’ottica.
Spesso, nelle descrizioni dei capi presenti negli shop online o raccontati in negozio, si notano lacune signicative. Quanto ritieni fondamentale una descrizione accurata e dettagliata di ogni elemento di un capo?
Per far arrivare l'archivio ad un pubblico più vasto, per aprire gli scaffali, è necessario essere in grado di raccontarlo. Senza questa apertura, l’archivio rimane un semplice “accumulo di cose” che non portano a nuove prospettive o ricerche. L’archivio perde quindi parte della sua funzione di base (l’etimologia stessa della parola viene dal greco archè, che signica “inizio”, “principio”). L’archivio dev’essere quindi un punto di partenza per il futuro. Proprio per questa ragione è fondamentale saper usare il giusto lessico. Ritengo infatti che anche se si vuole puntare ad una carriera archivistica, o anche teorica e storica, sia fondamentale avere delle conoscenze tecniche in ambito vestimentario. Ma questa considerazione apre un problema più ampio riguardo la nostra società contemporanea, sul parlare da persone informate o meno.
Quando un manufatto viene integrato in una collezione museale o archivistica, il suo status cambia radicalmente. Secondo te, cosa possiamo imparare da questo processo?
Credo che da archivisti, specialmente di collezioni pubbliche, sia fondamentale essere consapevoli della responsabilità di cui si è investiti. L’archivista ha il ruolo di conservare un oggetto per le generazioni future, un oggetto che è potenzialmente intriso di una serie di accezioni storiche, culturali, sociali, di conoscenze tecniche. Questa ricchezza va oltre la semplice “estetica” dell’abito, o del documento. Tutte queste dinamiche intrinseche devono quindi essere note all’archivista, che deve avere la responsabilità di saperle comunicare ed eventualmente problematizzare per il futuro. In questo l’archivio è un luogo estremamente potente e potenzialmente pericoloso. Nella mia visione, bisognerebbe archiviare tutto: la difficoltà sta poi nel attivare questi materiali con prospettive attente e curate.
Elementi secondari all'archivio, come le grucce, possono fare la differenza nella preservazione di un abito. Con la tua esperienza, come gestiresti i capi in un archivio DIY, specialmente per quanto riguarda l'esposizione?
Anche in questo caso, per me, si tratta di una questione di consapevolezza. Bisogna essere consapevoli delle cose che si stanno maneggiando e dell’intenzione che si ha nei confronti di quegli oggetti. Molti degli archivi DIY che si vedono comparire nei social ultimamente sono in realtà pagine di negozi vintage online che si autodefiniscono archivi per il semplice fatto che conservano moda vintage. Non ritengo sia necessariamente sbagliato che un archivio di questo tipo voglia utilizzare grucce semplici per la conservazione dei propri oggetti. Se l’ottica non è “preservare per l’eternità” – come le istituzioni pubbliche sono tenute a fare – ma vendere un pezzo d’archivio, allora vanno anche bene le grucce IKEA. Contesto più la scelta di autodefinizione in questo caso. Se invece l’intenzione è quella di fondare un’istituzione, allora ci dev’essere rigore. È, appunto, questione di consapevolezza.