Alessandro Michele sceglie la nostalgia per Valentino
Lo show della stagione ha già diviso le opinioni
30 Settembre 2024
Da quello che si può desumere dalle interviste rilasciate poco prima e subito dopo lo show SS25 di Valentino, che ha visto il ritorno di Alessandro Michele nella moda, il direttore creativo romano aveva già anticipato i commenti che il mondo intero avrebbe fatto del suo nuovo debutto. Michele sapeva già che gli sarebbe stato recriminato di aver portato il proprio vibe dusty chic, eccentrico, archivistico in quello che fino a pochi mesi fa era stato il regno minimale e sublimato di Pierpaolo Piccioli. Ma la verità è che Michele ha svolto l’incarico per cui era stato assunto, ovvero portare il proprio gusto individuale al brand, applicare il suo metodo. Questo metodo ha riguardato molto gli archivi di Valentino: se Gucci è un brand sempre riaperto alla reinvenzione, Valentino possiede una storia parecchio più dettagliata, una successione lunga decenni di sfilate di Haute Couture che va dagli anni ’60 al 2007 di cui si è forse perso il ricordo negli anni, sostituito da quasi un decennio di lavoro svolto da Piccioli. In altre parole, lo show di ieri non era Alessandro Michele che rifaceva Gucci o che rifaceva se stesso, ma un lavoro quasi archeologico di curatela e campionamento del Valentino “storico” che le nuove generazioni non hanno mai vissuto: dalla fine degli anni ’60 alla prima metà dei ’90, numerosi elementi degli archivi del brand sono stati prelevati e ricomposti, ricordandoci che il lavoro di Valentino stesso in passato non era legato a una semplice estetica o riducibile a uno stile ma era qualcosa di così vario, eclettico e multiforme che sfida la stessa nozione di “autore” che abbiamo oggi.
Se lo show che abbiamo visto ieri porta senza dubbio alcuno il gusto e l’occhio di Michele, né sul piano dei singoli abiti si discosta dallo spirito di un brand che per anni è stato unicamente legato alla creatività del suo fondatore, senza legarsi troppo a uno stile fisso come richiediamo oggi dai nostri designer, è anche vero che il tipo stesso di kitsch su cui Michele lavora pare cambiato. Confrontando le sue vecchie collezioni di Gucci con questa, infatti, è possibile notare una notevole diminuzione dei capi logati, delle scritte, degli ibridi streetwear, dell'approccio sregolato e astruso di un tempo: pur rimanendo molto sua, la collezione era indubbiamente più centrata e disciplinata di altre sue collezioni dove poteva succedere un po’ di tutto, fino al punto del casuale e dell’incoerente. In questo senso da Valentino ieri c’era molta carne al fuoco, ma non troppa carne al fuoco. L'unica vera bizzarria erano le sciarpe usate come cinture e cravatte - per il resto siamo rimasti lontani da certe altezze di gauche viste in passato.
Non di meno, si può davvero dire che lo show di ieri abbia ucciso il quiet luxury? Se ci si attendeva un cambiamento sismico nel settore, bisognerà attendere ancora. Ricordavamo così bene il vibe di Michele, ospiti del front row inclusi, con contorni così netti, che non sembrava di avere passato due anni in sua assenza – un tipo di familiarità così totale che ha annullato ogni effetto sorpresa: business as usual, come si dice nei film. Per questo forse la collezione è stata ottima per stabilire la nuova estetica ma ha rappresentato un’occasione mancata di darci qualcosa di nuovo – non diverso da ciò che Michele sa fare e ha fatto in passato, ma semplicemente nuovo. È chiaro che fare del nuovo non è semplice: in primo luogo perché il mercato è ormai ultrasaturo e dunque non c’è davvero modo di reinventare la ruota, per così dire; in secondo luogo perché, basandoci sulle collezioni firmate da Michele in passato, i suoi tentativi di fare del “nuovo” si risolvono spesso in chimeriche stravaganze come blazer da uomo con buchi addizionali per le braccia sui fianchi; abiti che mixano latex, chiffon e pizzo in aspri contrasti cromatici; i famigerati plug anali indossati come collane; leggings rosa tigrati e tutine di strass - strampalerie da studente di moda a stento giustificate dal classico ars gratia artis.
È dunque forse un bene che, salvo una clutch a forma di gatto, Michele non sia uscito troppo dal seminato limitandosi ad applicare a qualche look septum ricoperti di lustrini (che parevano indebitati a Riccardo Tisci) o a trasformare un berretto di lana in una specie di copricapo metallico che celava il viso del modello. Il talento del designer, dopo tutto, si esprime al suo massimo nel pastiche di vintage, antico ed esoterico, nell'aura di mistero e magia che si mantiene nel desueto senza inciampare nel bislacco. Su questo piano ieri l’equilibrio è stato mantenuto. Tutto considerato, comunque, potendo sfruttare per le sue ispirazioni archivi che attraversano mille stili e numerosi decenni, sarebbe più interessante che Michele proponesse collezioni veramente tematiche, che abbiano un centro o un cuore narrativo anche sviluppandosi in ramificazioni nuove e impensate ma coese ma dotate di una cornice di riferimento, un centro gravitazionale. Anche lo show di ieri, insomma, è stato un bagno di nostalgia, né ci si aspettava altro – ma quand’è che questa nostalgia verrà finalmente incanalata e usata per dialogare e mettere in luce un aspetto qualunque della realtà o anche solo una narrazione compiuta e sincera? La parola "collezione" si riferisce a un insieme di oggetti diversi accomunati e raccolti in base a un criterio: senza una ragione per cui i diversi riferimenti si trovano insieme, siamo più vicini a un "accumulo" che a una collezione vera e propria. Quand'è che nel caleidoscopio di ere e rimandi di Michele vedremo emergere una figura compiuta?