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Quando Alexander McQueen era il direttore creativo di Givenchy

E il rispetto era una questione di creatività

Quando Alexander McQueen era il direttore creativo di Givenchy E il rispetto era una questione di creatività
Givenchy Spring Summer 1999
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Couture Fall Winter 1997
Givenchy Spring Summer 1999
Givenchy Spring Summer 1999
Givenchy Spring Summer 1999
Givenchy Couture Spring 1997
Zendaya in archival Givenchy Fall Winter 1999
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Givenchy Couture FW99
Winona Ryder in Givenchy Spring Summer 1999
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture Spring 1997
Givenchy Couture 1998
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Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998
Givenchy Couture 1998

Nel corso della sua carriera, Alexander McQueen ha avuto più di un impero. Un brand omonimo, i cui codici estetici e narrativi continuano a essere profondamente legati al suo vissuto unico;  una maison dall'eredità storico-culturale ingombrante, che alimenta ancora le aspettative dell’intero sistema moda per come lo conosciamo oggi; e la direzione creativa di Givenchy sotto il conglomerato di LVMH capeggiato da Monsieur Arnault. Un impiego che, forse, dovremmo più correttamente definire come un’adozione. Siamo negli stessi anni in cui, volendo delimitare un minimo di contesto storico, Rei Kawakubo fa sfilare la controversa collezione “Body Meets Dress, Dress Meets Body”, Martin Margiela presenta una delle sue collezioni più concettuali, ispirata ai manichini d’atelier Stockman, Nicolas Ghesquière prende le redini di Balenciaga, Marc Jacobs di Louis Vuitton.

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Alexander McQueen Interview on Fashion Television (1997) In the captivating interview on Fashion Television by Jeanne Beker, Alexander McQueen reflects on the state of fashion following his Givenchy debut in 1997. Lee shares a thought-provoking perspective on the industry, stating that he does not see clothes as inherently important, viewing them simply as garments rather than objects of veneration. McQueen challenges the seriousness with which the fashion industry often regards clothing, emphasizing the need for a more balanced and nuanced approach tied to his sexuality and lived experience. Shop now at FORM.SPACE

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É il 1996: McQueen si è da poco laureato alla Central St Martins di Londra, l’accademia da cui proviene John Galliano, in carica come direttore creativo di Givenchy proprio fino a quell’anno. McQueen ha già maturato due esperienze lavorative, oltre ad aver già lanciato il suo brand nel 1992. Nel 1986, dopo aver visto un servizio in tv sulla mancanza di apprendisti da Savile Row, decide di rivolgersi direttamente ai sarti reali e ottiene un lavoro; qualche anno dopo è a Milano, dove lavora come modellista per il designer Romeo Gigli - «Alexander McQueen me lo sono trovato davanti una mattina in Corso Como», racconta il designer italiano. «Lo presi sotto la mia ala protettrice. Un giorno gli feci fare una giacca da uomo. Gliela feci rifare 4, 5 volte. All'ultima prova, staccai la fodera e dentro al capo, trovai che aveva scritto con un grosso pennarello nero “Fuck you Romeo”» - Aveva 27 anni quando divenne direttore creativo di Givenchy. «Uno come lui, che veniva da una famiglia della classe operaia, che era noto per  le sue creazioni pazze, iconoclastiche, era stato scelto da una delle più prestigiose maison parigine: tutti gli inglesi celebrarono l’evento come se avessero vinto la Coppa del mondo» racconta in un'intervista Ian Bonhôte, uno dei registi del documentario incentrato sulla vita del designer uscito nel 2020.

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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997
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Givenchy Couture Spring 1997

Da Givenchy, la posta in gioco è altissima. McQueen vuole svuotare la couture della sua parte più stereotipata e patinata per portarla in un terreno di riflessione comune senza tralasciare la sua identità estetica. «Non sono intimidito dagli esponenti dell'alta moda parigina. Non ho affatto paura di loro. Voglio riportare quella sofisticata disinvoltura che è unica per Givenchy, questo è quello che voglio fare. Rimanendo fedele a me stesso, senza dubbio» dichiara il designer in qualche vecchia intervista che restituisce il web.  La prima collezione da lui disegnata, all’interno del lavoro filologico condotto dal comparto editoriale di Vogue, segna uno spartiacque senza precedenti. Il magazine di punta di Condé Nast parla di "Couture Clash” alludendo sia ad uno scontro generazionale che culturale con epicentro in Avenue George V. Poco più di tre mesi passati a progettare la prima collezione Couture per una maison di lusso legata a figure a tutto tondo come Audrey Hepburn, novanta giorni per riuscire a tirare fuori qualcosa di sensato dall’archivio di una casa di moda amata dalla stampa - l’espediente della teatralità, già adottato da Galliano, arriva sotto forma di citazione al mito degli Argonauti con Alla ricerca del vello d’oro, la prima sfilata di McQueen da Givenchy. Bianco e oro, un omaggio (o forse no) alla blusa Bettina della Maison, Naomi Campbell ricoperta di un copricapo in corno dorato, corsetteria plasticamente alata da simulare le pieghe di una statua ellenistica, abiti à la Maria Callas, madonne rinascimentali con mantelli matchati con corna ovine (un paio provenivano dalla mandria di Isabella Blow), ear cuff al confine con la struttura di maschere e anelli sul naso: per la stampa è uno «schifo», per la premiere d’atelier Catherine Delondre «quando abbiamo visto le cose uscire dall'atelier, abbiamo pensato, questa è davvero couture». Lasciata in disparte la sua uniforme grunge a quadri, McQueen indossa un gessato, forse per non turbare eccessivamente la clientela e la stampa francese; così come riporta il critico di moda Hilton Als sul The New Yorker, il direttore creativo chiarisce di non voler vestire Anne Bass «in abiti insaguinati….Il motivo per cui lo faccio è perché ho 27 anni, non 57.» La moda inglese comincia ad affermarsi come una corrente di pensiero che si scaglia contro i canoni francesi. La prima collezione di McQueen per Givenchy rappresenta una svolta epocale, forse sovrapponibile al lavoro iniziato da Charles Worth un secolo prima.

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Givenchy Couture 1998
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Givenchy Couture Fall Winter 1997
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Givenchy Couture Fall Winter 1997
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Givenchy Couture Fall Winter 1997


Se con la Couture il lavoro di McQueen riesce a sconvolgere una generazione di fashion editor affezionati alla prima fila che «avrebbe fatto meglio a continuare a portare gli occhiali da sole neri» - così si legge nel saggio The Artful Dodger di Ingrid Sischy - lo scenario del ready to wear non è da meno. Il designer, che fino ad adesso non si è mai confrontato con il mondo dell’alta moda, vuole ripristinare la dimensione realistica e commerciale della Couture immaginando di rivolgersi non solo a ricche madre abbienti, ma anche alle loro figlie. Per questa ragione porta in scena montanari, principesse asiatiche tramutate in amazzoni, le frange di Dolly Parton, la fragilità di sua zia Patsy, donne cibernetiche o Blade Runner - la sua anarchia narrativa cercava di conciliare l’escapismo tipicamente associato alla moda con la gravità costante della realtà, senza lasciare nessuna forma di edulcorazione se non nelle aspettative dello spettatore. Se con la collezione Haute Couture FW97, Eclect Dissect, McQueen aveva immaginato la resurrezione decadentemente trionfante di donne precedentemente uccise da un chirurgo sadico lasciando il testimone ad animali imbalsamati, geishe, pizzi spagnoli, collane birmane e abiti popolari orientali decorati con piume, con la FW98 chiude lo show con un abito da sposa in pizzo e pantaloni (degno di regina Maria Antonietta) in grado di sintetizzare una crasi temporale tra il Rococò e il grunge degli anni ’90.

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Givenchy Couture FW99
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Zendaya in archival Givenchy Fall Winter 1999
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Givenchy Spring Summer 1999
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Winona Ryder in Givenchy Spring Summer 1999

Spostandosi nel campo del pret à porter, è con la collezione FW99 che McQueen dà forma e sostanza a quella che è passata alla storia come “Cyborg Couture”: borchie Swarovski computerizzate, pattern di microchip, abiti fatti di circuiti e led in collaborazione con lo Studio Van der Graaf alimentano le batterie del nuovo millennio alle porte. «Non era una sfilata di moda, era arte performativa» si legge su Vogue in riferimento alla collezione SS99 Ready-to-Wear, quella sedimentata nella memoria collettiva di tutti per il blitz dei robot che, armati di sola vernice, imbrattano il corpo della modella Shalom Harlow inerme in un abito di pizzo sangallo senza spalline, stretto sul busto da una cintura di pelle. In una delle sue ultime collezioni Couture per Givenchy, la FW99, McQueen concepisce una sorta di mostra d’arte fatta di manichini in vetroresina illuminati solo da riflettori - prende ispirazione dal un dipinto del XIX secolo di Paul Delaroche che raffigurava l’esecuzione di Lady Jane Gray, una pronipote di Enrico VIII. Nel 2001, quando la liason volge al termine, McQueen ha già stretto un accordo commerciale con il Gruppo Gucci, che acquisisce una quota di maggioranza del 51% del suo brand. Così, l’hooligan della moda può continuare ad amare la moda a modo suo.