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Contro la nostalgia: intervista a Michele Ciavarella

«Se non c’è innovazione non c’è moda», ha detto il giornalista

Contro la nostalgia: intervista a Michele Ciavarella «Se non c’è innovazione non c’è moda», ha detto il giornalista

Ora che, nel 2024, la percepita serenità del mondo occidentale pare sempre più a rischio, tra demagogie, guerre e la preoccupante cultura della post-verità, è naturale che la società cerchi rifugio correndo dove si corre quando né la spiritualità, l’arte e nemmeno la metafisica offrono conforto: il passato. Una lezione che tanti ex-rami della cultura, oggi divenuti industrie, hanno imparato – compiendo una transizione che, specialmente nella moda, ha trasformato i creativi in talent, la creatività in content e i divulgatori in media. È proprio questa transizione che Michele Ciavarella si è proposto di immortalare con il suo libro Game Changers, in cui offre dodici racconti personali dei principali designer che ne sono stati artefici e protagonisti. Un libro che non è una storia ma una finestra sul continuo stato di flusso in cui la moda, volente o nolente, si trova – un libro da cui traspare il messaggio che la stessa nozione di nostalgia andrebbe evitata. E per capire meglio cosa ne pensasse l’autore siamo andati direttamente a chiederglielo. «La nostalgia è un sentimento che nasce dalla paura del cambiamento», ci spiega Ciavarella, «e lavora contro l’innovazione. Ma così facendo, nega l’essenza stessa della moda che in sé è innovazione. Se non c’è innovazione non c’è moda». Quello della nostalgia, però, non è un caso che riguarda la moda, è più un contesto generale in cui individui e società si trovano immerse, spaventate da un presente che, nel diventare futuro, si scopre irriconoscibile. Questa resistenza al cambiamento è la cifra principale di quella che Ciavarella definisce «la cultura nostalgica» dei nostri giorni che, lungi dal riguardare solo la moda ma anche solo il mondo creativo, si estende anche, per esempio, all’economia. «I mercati sono per loro natura conservatori e quindi nostalgici» dato che nella logica economica un cavallo vincente non va mai sostituito. Un atteggiamento, però, che ci sbarra la strada nel cammino della storia: «Ogni volta che notiamo la resistenza al cambiamento dobbiamo chiederci se non ci sia un problema di nostalgia: se non riusciamo a staccarci da quello che ci piaceva e quindi ci ancoriamo al passato, allora siamo nostalgici perché non siamo disposti, non dico ad accettare il nuovo e a studiarlo, ma nemmeno a osservarlo».

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Per Ciavarella, comunque, il problema si è acuito nei nostri tempi ma non è nato ora. «Forse la moda della seconda parte del Novecento è nata da un sentimento nostalgico» nota, riflettendo ad esempio su come anche il New Look di Dior che, nel 1947, risollevò da solo le sorti della moda francese «per quanto contestato dai benpensanti, riporta l’immagine della donna un po’ all’indietro, con quel busto nascosto nella rigidità della giacca Bar e quella gonna a ruota. Secondo me è stata proprio quella gonna a dare alla figura femminile un aspetto romantico e un po’ rétro sfruttata perfino dalla pubblicità di massa per raccontare l’immagine della “moglie e mamma” di tutti gli anni 1950». Un cambiamento forse lo si vide con Yves Sain Laurent, il suo rivoluzionario Rive Gauche, il concetto di unisex e di prêt-à-porter «ma poi già nel decennio successivo si è iniziato a parlare di revival di quelli precedenti… Tutto il decennio del 1980 , con l’edonismo reaganiano e il rock baroque  sono stati una citazione dietro l’altra anche di anni poco precedenti». Fu all’epoca delle grandi acquisizioni, in cui sorsero gli odierni conglomerati del lusso, in cui i piccoli atelier artigianali divennero fabbriche, in cui gli stilisti umani divennero brand scorporati che «la nostalgia è diventata una narrazione potente attraverso la costruzione del mito degli archivi e del DNA». E la parola che Ciavarella usa, “mito”, non è casuale: «L’archivio non dovrebbe servire per dare continuità a una linea o a una forma né a un volume. L’archivio è la memoria storica in cui sono conservate le tante storie di un marchio. Gli archivi non custodiscono alcun DNA. Un giorno qualcuno ci spiegherà che cos’è il DNA di un marchio di moda e come la moda potrebbe sopravvivere al tempo che passa se fosse legata dalle catene di un DNA». E dato che prima si discuteva su Dior, Ciavarella riprende il suo esempio: «Pensiamo a quante memorie sono custodite nell’archivio della Maison Dior: quella del fondatore più quelle di Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferré, John Galliano, Raf Simons e ora Maria Grazia Chiuri. Di quali di queste tante memorie dovremmo essere nostalgici?»


Ma qui il problema si complica. La cultura della moda si regge su due pilastri: chi crea e chi indossa, il creatore da un lato e il suo pubblico dall’altro, l’oggetto e il suo spettatore. In breve, la nostalgia è un’arma a doppio taglio – specialmente in una civiltà iper-visuale, iper-veloce come la nostra, in cui tutto il passato sembra appiattito su un indefinito fondale. «Quella stessa nostalgia che oggi fa dire a molti, perfino ai giovanissimi sui social, che quando la moda la facevano i fondatori era meglio e che si riassume nella frase “il fondatore si rivolta nella tomba”. Il che è molto stupido perché nessuno sa che cosa avrebbe fatto oggi il fondatore. Nessuno sa che cosa avrebbe fatto oggi quel genio di Yves Saint Laurent», spiega Ciavarella. «Alle nuove generazioni tutto può apparire nuovo. Gli stessi social network propongono spesso foto della moda del passato», prosegue. «Ci sono molti account che si chiamano “Tribute to…” e in realtà veicolano un sentimento passatista che è una vera trappola per i ragazzi giovani il cui primo approccio alla moda arriva dallo scroll continuo e veloce sugli schermi di un device. Non è sbagliato in sé proporre le immagini del passato, è sbagliato proporle come migliori di quelle del presente». Il che crea una spirale di ripetitività per chi invece la moda la fa e non la osserva – essendo quella della moda una dimensione tanto creativa quanto mercantile. «Chi regola e comanda i mercati, come i reparti commerciali e soprattutto il marketing, propone prodotti in continuità con le vendite precedenti e i consumatori cadono in questa trappola perché avendo indossato un vestito che corrispondeva al loro bisogno e alla loro immagine pensano di perpetuarla per comodità. O anche per non auto destabilizzarsi».


Per illustrare meglio questa contraddizione, Ciavarella impiega l’immagine delle radici: «La nostalgia corrisponde alle radici che costringono le piante a rimanere fisse in un luogo. Le persone non hanno radici ma origini e con quelle si possono muovere ovunque. Le origini si possono ricordare e si possono sfruttare per trovare soluzioni nuove e impreviste - non impediscono l’innovazione. Ecco, gli archivi conservando la memoria o le memorie storiche sono le origini, non sono le radici». Ma qual è, in concreto, il rischio del passatismo? Per Ciavarella le prove sono davanti ai nostri occhi, nello specifico le possiamo trovare nell’enorme enfasi data al prodotto portabile nelle ultime stagioni della moda. «Si pensi soltanto a quante volte è ritornato nel guardaroba maschile il così detto “abbigliamento formale” cioè quello nato dalla rivoluzione borghese, con nomi più o meno innovativi, da normcore a quiet luxury. […] . E l’immagine femminile? Non si contano le riedizioni del look ladylike… E non è un caso che tra i tanti revival ci siano più i look borghesi che quelli d’avanguardia».  Il risultato è che «la maggior parte della moda che viene veicolata nei negozi di tutto il mondo è conservatrice, quindi è nostalgica. Spero che il futuro sappia elaborare qualcosa di nuovo e di non nostalgico. Ma con il sistema in mano alle potenze finanziarie la vedo veramente dura».

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Quale antidoto, allora, alla tirannia dei ricordi, al «sentimento nostalgico che si aggrappa con le sue unghie nefaste a molte creatività»? Dopo aver ribadito che «la nostalgia non è mai sana», Ciavarella ha indicato un designer che ha un rapporto sano con il passato, ed è Alessandro Michele. Profeta di uno stile eclettico, amante del pastiche e della contaminazione di stili, il direttore creativo di Valentino «ha fatto un uso del passato che non è assolutamente nostalgico, anzi: l’ha utilizzato per costruire un presente che ha veicolato i temi che, ancora oggi, sono ostacolati da ideologie partitiche regressive e nostalgiche». Un passato che, estetizzato, smette di rappresentare un vecchio modello di valori e anzi, tramite la stessa tecnica del collage di stili e suggestioni trasversale attraverso le epoche, gli stili e le destinazioni d’uso «ha veicolato e fatto entrare il genderless nel dibattito sociale per capire come il passato si può utilizzare non come motore che alimenta la nostalgia ma come strumento per disegnare un’idea evolutiva del presente». Forse allora dalla nostalgia c’è scampo. Ciavarella conclude: «Quando la memoria storica lavora per produrre il nuovo, allora il sentimento nostalgico viene sconfitto».