Come si diventa designer di boutique di lusso
Intervista a Eugenia Foti, interior designer per Dior
27 Giugno 2024
Dimmi cosa compri e ti dirò chi sei. O meglio, dimmi dove. Prima che i club e i social media diventassero gli spazi principali per il raduno di subculture, erano le boutique i luoghi in cui scoprire gli ultimi trend di moda. E non c’entra quello che era appeso sulle relle, bensì quello che indossavano i clienti, come si comportavano all’interno del negozio, il clima che si respirava. Lo street style per come lo conosciamo oggi ha preso forma agli inizi degli anni ’60, quando Mary Quant aprì Bazaar (lei addirittura nel 1955), quando Barbara Hulanicki aprì Biba, e quando Yves Saint Laurent aprì Rive Gauche. Tre boutique che hanno segnato per sempre la maniera in cui acquistiamo, capitanate da designer giovani, portabandiera della liberazione femminile attraverso gli abiti. Remando contro l’austerità dell’alta moda, da Biba, da Bazaar e da Rive Gauche si andava per divertirsi, per sentire buona musica e per aggiornarsi sulle ultime tendenze. I colori accesi delle vetrine riflettevano la personalità dei talenti che frequentavano i tre negozi, come le muse Lou Lou de la Falaise e Betty Catroux nella boutique di Parigi, o i Rolling Stones e i Beatles oltremanica. Visitare Biba, Bazaar o Rive Gauche voleva dire accedere al mondo dei Swinging Sixties e della moda Hippie anni ’70, fare parte di una community la cui immagine resta tutt’ora un’icona. Oggi scoprire uno store, studiarne la vetrina, rapportarsi con i commessi e con gli articoli proposti viene chiamato customer experience, termine che racchiude tutti i passaggi che portano all’acquisto. E-commerce a parte, la nostra esperienza di shopping influenza estremamente sulla nostra decisione finale perché, così come un assistente vendite scortese, anche uno specchio mal illuminato può convincerci ad abbandonare il carrello. Se un tempo erano gli stilisti a scegliere il design della propria boutique, oggi esistono profili professionali dedicati in grado di coniugare creatività e praticità tanto da intercettare le necessità di un cliente ancor prima che questi superi la porta d’ingresso. Un mestiere in continuo cambiamento, che oggi più che mai segue le leggi dei social media e della computerizzazione, abbiamo chiesto come si diventa designer di boutique di lusso a Eugenia Foti, che in quasi dieci anni di carriera ha disegnato gli spazi di maison come Gucci, Valentino e Dior.
Con una laurea in interior design presso l’Istituto Marangoni, prima di tuffarsi nel mondo della moda Foti ha fatto la famigerata «gavetta» negli studi di architettura, dove ha potuto perfezionarsi nel disegno 3D. Racconta che ciò che l’ha aiutata ad attirare l’attenzione di Gucci è stato avere un portfolio solido e una specializzazione, ma aggiunge che senza la perseveranza e la passione la sua carriera si sarebbe fermata molto prima. «Si parte sempre dalla ricerca, sul concept, sui materiali e sulla visione degli spazi», dice la designer, descrivendo come, sebbene il suo lavoro sia ormai computerizzato («guardo ancora video su come potermi migliorare sul 3D dal mattino alla sera»), l’ispirazione iniziale spesso arriva ancora lontano da schermi e tastiere, tra le mostre d’arte e le installazioni che scopre in giro per il mondo. Da lì, poi, entra in gioco la tecnica: bisogna fare attenzione «alla posizione di tutti gli elementi, in modo da favorire al meglio la customer experience». Da Dior, per esempio, in occasione dell’arrivo in boutique della collezione Riviera, sono state esposte delle sculture a forma di conchiglia all’interno dello store per affiancare con un’immagine poetica la nuova linea ma anche, ovviamente, per invogliare il visitatore a scoprirla.
Ad oggi, racconta Foti, il cambiamento più significativo che ha osservato nel mondo del design di interni ha a che fare con i social media, come del resto ogni trasformazione avvenuta nel mondo della moda. Dalle sfilate alle boutique, è sempre più raro che si volti le spalle a un “momento instagrammabile”, sia questo un’installazione interattiva o un’opera d’arte d’impatto capace di acchiappare like e interazioni appetitose. «Io non so se sono d’accordo» commenta la designer. «Una boutique deve essere bella proprio in generale». Foti fa l’esempio del suo store preferito, Dior in Avenue Montaigne, il primo nella storia della maison in cui è possibile osservare da vicino i primi schizzi dello stilista nella loro interezza, oltre che scattare una fotografia affianco ai fiori giganti al centro della boutique. «Accanto allo store c’è la Galèrie Dior che a a livello architettonico è bellissima. Lo spazio ti trasmette tante emozioni perché è proprio un museo, dove è nato tutto. È un tuffo nella storia».
Come il design, come la moda e come l’arte, il mondo degli interni è cambiato, più che mai legato all’impatto mediatico, ma non per questo incastrato in un’allucinazione algoritmica e ripetitiva. Alla larga da installazioni temporanee di plastica e architetture scopiazzate da qualche angolo di internet, ci sono ancora spazi mozzafiato come Bottega Veneta in Corso Vittorio Emanuele in legno di noce italiano e marmo Verde Saint Denis, il grattacielo di specchi di Prada a Tokyo, o ancora il labirinto rosso e bianco di Comme des Garçons a Parigi. Per chiunque volesse atterrare nell’universo di un brand e lavorare al design di interni delle loro boutique non basta però la creatività, Foti raccomanda. «La richiesta c’è sempre secondo me, se uno è appassionato di architettura e di moda può farlo. Non è facilissimo, ma se uno ha la passione e la voglia di imparare continuamente programmi nuovi (la tecnologia va sempre avanti, adesso c’è anche l’intelligenza artificiale) può riuscirci». Certo, ormai sarà raro incontrare Mick Jagger o Paul McCartney per le stanze della boutique come negli anni ’60 da Rive Gauche o da Bazaar, però.