Il primo patto vincolante del fast fashion per i lavoratori in Cambogia
Tre brand si impegnano per aumentare i salari, ma all'appello manca Inditex
24 Maggio 2024
Ieri, alla Global Fashion Summit di Copenhagen, i gruppi di fast fashion H&M (proprietario di COS; & Other Stories, Monki, Weekday e ARKET, tra gli altri), ASOS e PVH (Tommy Hilfiger, Calvin Klein, Warner's, Olga e True & Co) hanno firmato un nuovo accordo per salari più alti, migliori condizioni lavorative e impegni per il sourcing nei centri di produzione. Si tratta di un patto individuale vincolante stretto in collaborazione con l’unione IndistruALL, che rappresenta cinquanta milioni di lavoratori dell’industria mineraria, energetica e manufatturiera in tutto il mondo. In questo caso il nuovo accordo riguarda solo le supply chain della Cambogia, polo di approvvigionamento strategico per i tre gruppi. Gli accordi bilaterali impegnano i brand in maniera diversa, ma li avvicinano ad obiettivi ben precisi: portare i firmatari a contenere i costi della manodopera; garantire lo stesso volume di sourcing per impedire ai proprietari di fabbrica di aggirare il sistema a scapito degli impiegati; promuovere la formazione dei lavoratori partecipando ad un fondo comune.
Il nuovo patto che coinvolge ASOS, PVH e H&M è stato stabilito secondo ACT, un accordo tra sindacati, brand e rivenditori globali nato quasi dieci anni fa che coinvolge venti grande aziende di abbigliamento per il miglioramento delle condizioni lavorative nei principali paesi di produzione dell'industria di abbigliamento. Fino a ieri, gli impegni a cui rispondevano le tre aziende erano puramente su base volontaria, per questo motivo il patto rappresenta un evento sostanziale nella storia del fast fashion che potrebbe finalmente portare ad un vero aumento degli stipendi. In particolare, il vincolo obbliga i tre gruppi a non cambiare fabbrica di produzione in caso aumentino i costi in seguitp a rialzi salariale. «Si tratta di un vero e proprio cambiamento di responsabilità nella supply chain», ha dichiarato la direttrice del settore tessile e dell'abbigliamento di IndustriALL, Christina Hajagos-Clausen.
Il nuovo patto è simile allo stesso stretto da centinaia di brand nel 2013, dopo il crollo della fabbrica Rana Plaza, ma al tempo l’accordo del Bangladesh era stato vincolato solo per le condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, non circa i costi di produzione e di approvvigionamento in relazione ai salari. Alla Global Summit di questa settimana, i brand hanno riconosciuto che firmare il nuovo patto con IndustriALL gioverà anche alla loro reputazione in fatto di sostenibilità e nel rispetto del regolamento di due diligence. Sono ancora tante le corporazioni che scelgono di non vincolarsi ad un accordo come quello di ACT, tra cui Inditex, proprietaria di Zara, nonostante abbia comunicato che sosterrà salari maggiori attraverso le sue pratiche di acquisto. È certo che un impegno volontario da parte dei brand non rappresenta ancora nessuna certezza: finché le scelte esecutive di tutti i coinvolti non verranno pesate a livello legale, i problemi che affliggono l’industria del fast fashion continueranno a rimanere invariati.