Lo spelling è il nuovo feticcio della moda?
Per comprare un brand, bisogna sicuramente saperne pronunciare il nome
10 Aprile 2024
Da sempre i nomi delle maison di lusso vengono storpiati a seconda delle diverse pronunce nazionali o, in alcuni casi, non sono scritti correttamente (per citare un’impacciatissima Andy Sachs ne Il Diavolo Veste Prada: “Can you please spell Gabbana?”). Le maison del system infatti tengono molto alla corretta pronuncia del proprio nome sia a livello personale sia da un punto di vista di brand perception e recognition: pensiamo a quante volte Donatella Versace e Franco Moschino abbiano dovuto correggere, spesso con sottile nervosismo, i giornalisti che americanizzavano i nomi delle case di moda italiane. Ma conviene ai brand sfruttare l’ironia che questi difetti nel linguaggio comune generano per creare un nuovo canale di comunicazione? Per Jonathan Anderson, direttore creativo di Loewe, il sarcasmo è al centro della campagna Decades of Confusion che vede protagonisti Aubrey Plaza, la diva indie di Parks and Recreation e The White Lotus, e Dan Levy, protagonista di Schitt's Creek oltre che autore della sceneggiatura del corto. La video-campagna inizia negli anni ’70, per poi attraversare diversi decenni fino ad oggi, nel contesto di una gara internazionale di spelling condotta da Levy in cui Plaza prova a scandire il nome del brand senza riuscirci in tre "ere" diverse del brand rappresentate da altrettanti look d'archivio e contemporanei.
Nel segmento ambientato al giorno d'oggi, Plaza fa la parodia della classica influencer, testimonial del brand, che indossa un abito a forma di automobile della collezione FW22 e dice, ironicamente, di essere molto amica di Anderson senza però riuscire a pronunciare “Loewe”. Il designer si serve della tradizione americana delle gare di spelling per mostrare abiti del brand, alcuni di archivio appartenenti ad annate diverse ed altri più recenti, richiamando così l’attenzione sulla storicità della maison e sulla sua preziosa tradizione artigianale. “Moda iconica ma risposte sbagliate”, citando le parole di Anderson per descrivere il corto che forse i latini avrebbero definito “una commedia degli equivoci”, che ironizza su alcuni luoghi comuni mettendo al centro il tema delle incomprensioni nella comunicazione e giocando sulla difficile pronuncia spagnola del nome del brand.
Sulla stessa falsariga, SSENSE ha adottato il formato delle gare di spelling per il lancio della collezione kidswear. La campagna Spelling Bee vede protagonisti dei bambini che indossano un total look del brand di cui devono fare lo spelling: da Thom Browne a Rick Owens, fino a brand emergenti come Collina Strada e Eckhaus Latta. SSENSE sceglie l’emotional branding, un’efficace strategia di mercato che, attraverso il coinvolgimento emotivo dei possibili acquirenti, ha lo scopo di allargare la clientela e quindi vendere di più, ma anche di creare contenuti social teneri e accattivanti funzionali a stabilire empatia con la propria community. Oltre agli esempi citati, pensiamo alla campagna 2018 di Versace intitolata The Clans of Versace in cui si ripeteva: “It's Versace not Versachee!”, espressione che nel suo significato letterale vuole affermare l’italianità del brand a partire dal suo nome, ma che spesso viene utilizzata per indicare qualcosa di cheap, come una falsa imitazione di un capo della maison.
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Un altro curioso episodio fu quello della Cruise 2018 di Gucci. Alessandro Michele, da pochi anni alla guida del brand, realizzò delle t-shirt stampate sulle quali comparvero per la prima volta espressioni come Guccify Yourself o Guccification, nuovi termini coniati dal designer che, attraverso il difetto e la storpiatura del termine originale, hanno contribuito a creare un nuovo alfabeto personale nella community di Gucci. Questi due ultimi casi ci permettono di sottolineare come i brand con più successo oggi costruiscano una comunicazione che parte da parole, spesso sagacemente ironiche, con le quali autorappresentarsi. D’altronde, il termine “Pradaness”, come l’aggettivo “valentiniano”, sono espressioni intraducibili con le quali si indica non solo un capo di abbigliamento, ma un’attitudine, uno stile definito e unico. L’ironia quindi può rappresentare un terreno fertile su cui puntare per creare un linguaggio funzionale sia alla valorizzazione del prodotto, come nel caso di SSENSE, sia al rafforzamento dell’identità di un brand, nel caso di Loewe, creando in questo modo un’immagine meno snob e più relatable della moda che, in fin dei conti, tollera come unica forma di umorismo l’autoironia.