Il format della sfilata andrebbe davvero rivoluzionato?
Cosa possono insegnarci le collaborazioni cross-industry
11 Gennaio 2024
Quella delle collaborazioni cross-industry è una strategia che esiste da molti anni in quasi ogni campo dell’industria - gli studi cinematografici ne sono particolarmente esperti. Di cosa si tratta? Di progetti collaterali a quelli del proprio core business che però hanno la funzione di promuovere un certo prodotto o servizio. In quasi tutti i casi, queste collaborazioni prendono la forma di esperienze pop-up di vario tipo. Nel caso di cinema e televisione, ad esempio, c’è il caso di Warner Bros che a novembre ha aperto a Boston un fac-simile del celebre bar di Friends; a dicembre è invece andato in scena a Londra Stranger Things: The First Shadow, il prequel teatrale dell’omonima serie Netflix; e sempre Netflix ha di recente inaugurato a Los Angeles un parco a tema dedicato a Squid Game, in cui è possibile partecipare ai giochi della serie. Ad aprile, poi, nelle principali metropoli degli Stati Uniti, è stato aperto un Malibu Barbie Cafè per celebrare l’uscita del film che ha dominato i box office e le coscienze di quest’anno, simile cosa accade in tutto il mondo con i Marvel Cafè che servono cibo e bevande a tema MCU, mentre per l’uscita di Asteroid City di Wes Anderson, a Milano, Fondazione Prada ha creato una mostra immersiva con tutti i prop e i costumi del film. L’obiettivo di queste collaborazioni cross-industry è pubblicizzare in modo inedito (e dunque dare più risonanza) i propri prodotti, e permettere ai fan di interagire con il suddetto prodotto anche al di fuori dello schermo. Il successo di queste iniziative ha convinto in via definitiva le piattaforme che la sostenibilità economica si raggiunge anche e soprattutto differenziando l’offerta, aumentando quindi i progetti collaterali connessi a film e serie tv – piccoli o grandi che siano. E la scommessa paga: nel 2023 la sezione “Experiences” della Disney, che si occupa di tutte le attività che esulano il cinema e l’animazione, ha realizzato il suo utile più alto di sempre, pari a oltre 9 miliardi di dollari. A questo punto dovremmo chiederci: la moda potrebbe imparare qualcosa da queste strategie?
@nssmagazine The new era of Louis Vuitton has finally begun, Pharrell’s LV menswear finally made its debut. What do you think? Eseniya Araslanova #lv #menswear #pharrell #louisvuitton #paris #pfw #pfw23 #fashionweek #parisfashionweek #dietrolequinte #fashionshow #outfit #runway JOY (Unspeakable) (feat. Pharrell Williams) - Voices of Fire
Già qualche anno fa, nel mezzo della pandemia da coronavirus, un gruppo di stilisti, rivenditori e dirigenti d’azienda aveva sostenuto una proposta – ancora attuale – per rinnovare radicalmente il sistema della moda. L’iniziativa prendeva il nome di #Rewiringfashion e tra le altre cose chiedeva ad esempio di modificare lo svolgimento delle sfilate, che non è mai cambiato negli ultimi 50 anni. Oggi le sfilate offrono prestigio e Earned Media Value, ovvero visibilità, ma la loro formula non ha più senso di esistere e dunque potrebbe essere innovata. Ma dovrebbe esserlo? Moncler e la sua strategia promozionale sono un esempio perfetto di innovazione che funziona: dal faraonico show in Duomo passando per il lancio della collaborazione con Pharrell al Portrait Milano con tanto di live performance, tutti gli eventi firmati Moncler delle scorse fashion week hanno avuto un respiro più ampio delle classiche sfilate e una risonanza ancora maggiore; parallelamente allo show di debutto di Sabato De Sarno, invece, Gucci ha aperto una galleria temporanea in Brera e convertito alcuni spot della città (incluso un tram e un gelataio) in portavoce pubblici della sfumatura di “Rosso Ancora” che simboleggiava il nuovo corso del brand, aprendo poi la mostra Cosmos a Londra; e ancora Loro Piana, che non organizza sfilate, ha convertito l’edicola di Via dei Giardini in uno stand dove si distribuivano torte giapponesi al pubblico avvolte da sciarpe di seta - inutile dire che ben presto davanti all’edicola si è formata una vera e propria fila.
Didn’t this woke brand label the fashion show as outdated and decided to do a podcast instead. VS will need to bring back the if they want to save themselves. https://t.co/vYONxeMETg
— its gonna be a hot summer, hot hot summer (@calebtweetss) March 7, 2023
In un mercato-chiave come la Corea del Sud, invece, Jacquemus ha portato quest’anno il suo concept itinerante di Cafè Fleurs a Seoul (stesso discorso varrebbe per i distributori automatici di borse installati a Milano e Parigi) mentre già negli anni passati Louis Vuitton aveva aperto un ristorante vegano pop-up in città e Bottega Veneta aveva inaugurato un’installazione-labirinto interamente ricoperta di pelliccia verde. Infine, come menzione imprescindibile in questo elenco molto sommario, c’è il grande concept di Gucci Garden a Firenze che riunisce il museo, il gift-shop, il bistrot, il cocktail bar sotto l’unico mantello di un’esperienza brandizzata che porta il lusso del brand al di fuori delle boutique e della merce in essa contenuta. Parlando di presentazioni originali, invece, si potrebbero citare il Savage X Fenty Show di Rihanna, che è uno special televisivo, o il livestream con cui Telfar Clemens porta al pubblico i suoi prodotti e i suoi lanci - entrambi momenti, però, che non riguardano moda di lusso vera e propria, ambito in cui i clienti, pur non aspettandosi abiti formali, si aspettano comunque un senso di esclusività e di "evento chiuso" che li ripaga delle loro molte spese. Il tentativo di Victoria's Secret di alterare il formato classico della sfilata trasformandola in una specie di documentario, ad esempio, è stato un boomerang mediatico davvero brutale.
@3milx02 Had my first show for Celine have a lil peek #foryou #celine #hedislimane original sound - Emil
Ma queste sono semplicemente esperienze e attivazioni che fanno parte del manuale di marketing di qualunque brand. Il dilemma sta nel capire se sarà possibile, a un certo punto, rivoluzionare il modello originario della classica sfilata per creare un tipo di esperienza diverso. Esistono diverse sfide però: al momento, il défilé è semplicemente il mezzo più pratico di mostrare una collezione di abbigliamento e accessori - l’effettiva parata dei modelli si può tutt’al più arricchire con la performance di un artista, un’installazione, un concept di sfilata in stile McQueen che strizzi l’occhio al teatro o al musical ma si tratta comunque di una sovrastruttura, di un’ornamento che si aggiunge al modello noto senza alterarlo. KidSuper ha in effetti provato a fare qualcosa di diverso trasformando il suo show in una specie di cabaret comico; la controversa Elena Velez ha arricchito o trasformato il suo show in una lotta nel gango; mentre Celine, quando presentò la collezione Le Palace a Parigi, la trasformò in “esperienza” prima di tutto non aprendola al pubblico e senza mostrarla in diretta, poi distribuendo snack brandizzati a tema e infine facendola seguire da un concerto rock vero e proprio e poi ancora da un after party. Insomma, in questo caso specifico, limitare l’esperienza ai soli presenti in real life ha fatto dello show qualcosa di completamente inedito anche se, a rigor di logica, il modello usuale del défilé è rimasto identico. Qualcosa di simile avveniva quando Bottega Veneta organizzava show a porte chiuse. E ricordando come, in pandemia, le sfilate digitali, i see-now-buy-now e i fashion film non avessero soddisfatto davvero tutti c’è davvero da chiedersi se il modello adusto della sfilata, con tutti i problemi che si tira dietro, tutti gli sprechi e contraddizioni, sia anche l’unico e vero modo di raccontare gli abiti al mondo. In breve, e per parafrasare Churchill, la sfilata è il modo peggiore di presentare una collezione ma non ne conosciamo di migliori.