Storia delle pellicce da uomo
Dall'Ivy League a Drake
15 Dicembre 2023
«Preferirei essere nuda piuttosto che indossare una pelliccia» recitava lo slogan della campagna PETA portata avanti da Naomi Campbell e Cindy Crawford nel 1994 - i loro corpi, privati di qualsiasi rivestimento, lasciavano alla parola scritta la possibilità di discutere i punti di un manifesto politico ed estetico su cui la moda è stata chiamata più volte a dire la sua. Di visone, di ermellino, di coyote o di altre specie, oggi la pelliccia più di moda è sintetica o di lana, pur essendosi caricata di significati sociali che meriterebbero una riflessione più attenta. Soprattutto quando è stata indossata da uomini che ne hanno riletto i codici e alterato lo storyboard.
Dove nasce la moda della pelliccia da uomo?
Tutto inizia in Egitto dove soltanto alla famiglia reale e ai sommi sacerdoti era concesso l’uso della pelliccia di leopardo per traslare a livello visivo il potere esercitato sui sudditi. Tradizione elitaria che, accolta dai nobili britannici nel XIII secolo, è arrivata incolume fino agli anni 20 del XX secolo, quando i ricchi studenti della scuola americana Ivy League hanno cominciato ad indossare il cappotto Racoon in pelliccia di procione, tessendo le trame di quello che il capitalismo avrebbe piegato a marcatore di una ricchezza inaccessibile per le masse. Ma è proprio grazie a questo status symbol vestimentario che si snoda la prima intersezione tra la pelliccia e la musica: nel 1929 il cantante George Olsen pubblica il singolo Doing The Racoon, commentando - e forse criticando - la sontuosità del preppy high fashion promosso dagli studenti dell’Ivy League.
Le pellicce delle star jazz e rock
Negli anni '30, è stata la volta del jazz e del Swing - Miles Davis, Sammy Davis Jr, Lee Morgan, Duke Ellington iniziarono ad abbracciare l’idea di costruire un’identità che passasse anche per i vestiti. Delle pellicce con cui molti degli artisti jazz si sono adornati rimane traccia anche l’Institute of Jazz della Rutgers University, in mezzo ad una pila di repertori che includono persino gli scontrini degli acquisti effettuati dagli anni '30 agli '80. Più che confinare le pellicce degli animali nel campo visivo del distanziamento socio-economico, gli artisti jazz le usavano come pretesto narrativo per raccontare un riconoscimento precedentemente negato. Questi codici, essenzialmente legati alla cultura e agli slang della comunità black di quegli anni, migrano poi nel linguaggio del rock: Mick Jagger, fotografato in Fur Parka nel 1964, intuisce il potenziale del mix and match tra stivali con tacco e pelliccia. Al glamour soffuso degli artisti jazz, di lì a poco, si sostituisce il camp dei Rolling Stones o di David Bowie - la confusione con il genere femminile diventa un elemento di rottura con la tradizione mainstream.
Le pellicce dei rapper
Alla pelliccia, in poche parole, la storia del costume maschile ha riconosciuto un valore sociale prima ancora che estetico. La presa semantica di quest’indumento comincia ad affievolirsi nel corso degli anni ’70, nel preciso istante in cui le proteste di attivisti e animalisti impegnati nella lotta contro l’uso della pelliccia ne scalfiscono l’appeal: il sistema ne propone una versione sintetica, principalmente in poliestere. Anche il suo percepito, di conseguenza, subisce un rimodellamento misurandosi con i pregiudizi e gli stereotipi partoriti dai film blaxploitation, in cui l’indumento viene associato a magnaccia e delinquenti appartenenti alla comunità black. Siamo negli anni in cui Sylvester Stallone, mettendo in stand by felpe grigie e athleisure, ci regala look di street style in morbide pellicce bianche o marroni. E negli anni ’90, ad ogni modo, che la pelliccia torna a riallacciare il rapporto con la musica, nominando l’hip hop e il rap a generi prediletti. Le pellicce, sotto forma di citazioni ai predecessori della wave jazz, diventano la risposta alle rappresentazioni razziste di matrice mediatica.
Cam’ron, nel pieno fervore degli anni 2000, indossa una pelliccia di visone rosa il cui styling sembra far crollare il labile confine che separa il y2k dal mc bling - “gorgeous gangster” nella sua sintesi rilasciata a GQ US. A distanza di tre anni, nel 2005, Snoop Dogg indossa un completo a prova di dandy con una pelliccia a dir poco flamboyant. Alla lista, ovviamente, non poteva mancare Kanye West che, come lascia intuire il brano Cold del 2012 («Tell PETA my mink is dragging on the floor»), di pellicce ne ha fatto sfoggio almeno fino al 2014. Se il rapper statunitense si era presentato allo show FW14 di Givenchy in quella che ha tutta l’apparenza di essere una pelliccia di coniglio, quella di coyote indossata nel 2016 da Justin Bieber tra le strade di Los Angeles aveva fatto notizia per il suo essere totalmente fuori luogo considerate le temperature del sud California. Seguono, anche se con background e storie diverse, Asap Rocky, Drake, Ezra Miller e Harry Styles come portavoci del capo della discordia per antonomasia.
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Il noto editor di Vogue US André Leon Talley, che le pellicce le usava, diceva che «per essere aristocratici non bisognava essere nati in una famiglia aristocratica» - la pelliccia, inizialmente, era quanto di più elitario ed escludente ci potesse essere in circolazione. Che sia “vera” o “eco”, la realtà è che oggi non rappresenta né un indumento esclusivo né tanto meno identificativo di una comunità o di una sottocultura. Il suo potere evocativo, già svilito dalla giusta (anche se opinabile nel caso di fibre sintetiche poco sostenibili per l’ambiente) scelta di non produrre più pellicce animali, non costituisce più uno statement. Al massimo, come accade nel mondo della post-verità, agisce da capo di recupero: la Gen Z la riscopre su Pinterest, la ripesca nell’armadio di famiglia e, nel peggiore dei casi, ne ricerca il dupe perfetto tra gli scaffali del fast fashion per i fit check sui TikTok. Le pellicce, ormai, sono solamente pellicce.