Nessun dorma: esplorando lo stile di Pavarotti
Come Internet ha fatto del tenore un’insospettabile icona di stile
06 Settembre 2024
Nella storia della musica, così come in quella della cultura pop e della vita vera, Luciano Pavarotti è stato un personaggio larger than life. Forse il principale responsabile, insieme a Maria Callas, di aver riallacciato i rapporti tra l’aristocratico mondo del bel canto e la cultura pop. Nel 1982, Time lo definiva «il primo tenore dei tempi moderni che non solo delizia gli esperti ma stupisce anche le masse». E la polarità fra il teatro e lo stadio, se vogliamo dire così, tra la musica lirica e quella leggera («il punto d’incontro c’è», disse nel 2000 a Sanremo, «quando la musica è bella, è bella»), tra l’elevato e il pop fu un po’ ciò che definì la sua lunghissima carriera insieme anche al suo impegno per il sociale. Ma questa è l’agiografia, non la storia pop. Per chi è nato e cresciuto in Italia negli anni ’90, per i Millennial insomma, Pavarotti è una di quelle figure che popolano l’immaginario collettivo senza un ruolo preciso: i giovani Millennial, che non sono poi così melomani, sapevano che era un tenore ma non comprendevano appieno il mondo della musica lirica. Di lui si ricordava la fisionomia, inequivocabile con la barba, le grandi sopracciglia nere e quel sorriso che gli aleggiava sempre in volto. Era una figura paterna, a suo modo. E la creazione del suo personaggio si è molto basata anche sul suo stile che, più che personale, era inequivocabile: la classica sciarpa bianca, simbolo di tutti i cantanti lirici che danno mostra di tenere alla propria voce; la collezione senza fondo di foulard di Hermès grandi come vele nautiche che lo accompagnavano costantemente; il panama color panna alternato con il newsboy hat; l’opulenza vivida dei colori anni ’80 che indossava. A sedici anni di distanza dalla sua scomparsa, Pavarotti è un’icona, più che del bel canto, del bel vivere: tutto di lui, dall’indimenticata performance di Lucean le stelle, fino alle foto che lo ritraggono in motorino che gira per la sua tenuta, parla di un vitalismo sincero ma soprattutto molto italiano.
Il suo legame all’immaginario italiano è stato alimentato, al di fuori della sua arte, dal suo amore per la cucina, di cui esistono infiniti aneddoti: la volta che, nel preparare una colazione, la vestaglia gli andò a fuoco; le cucine da campo messe a punto nelle suite dei suoi alberghi, i cui frigobar venivano stipati di parmigiano, salumi e pasta; la consommè di pollo bollente che lo aspettava in camerino; quella volta che costrinse una troupe a “deviare” da Los Angeles all’Italia dopo un concerto perché nella prossima destinazione, Tokyo, non avrebbero potuto avere gli ingredienti per le penne all’arrabbiata; o l’episodio in cui assaggiò con la sua forchetta la pasta ai gamberetti di Lady Diana, seduta accanto a lui. Un dettaglio, di questi tanti aneddoti, lega il gusto della cucina, all’arte di Pavarotti e anche al suo guardaroba personale: i grandi carrè di Hermes che si drappeggiava intorno al collo, infatti, sarebbero serviti a nascondere spicchi di mela, frutto che stimola la salivazione e ha proprietà astringenti che favoriscono il canto.
Il suo vestiario da tempo libero, invece, era un’antologia di significanti diversi che ne raccontavano la personalità: l’onnipresente sciarpa lo qualificava come un artista, i completi di lana spessa con cui si faceva ritrarre a spasso nella natura o in campagna lo dipingevano come un gentiluomo del popolo, così come i larghi sorrisi e le smorfie affettuose che spesso si vedevano nelle fotografie; le grandi camicie, invece, con le maniche spesso rimboccate e una penna nel taschino, parlavano coi colori dell’esuberanza della sua personalità e con la loro noncuranza indicavano la natura pratica e fattiva del lavoratore che vuole avere meno impacci possibile, l’occasionale vestaglia rossa testimoniava un gusto raffinato con un tocco di istrionismo. Il punto è proprio questo. Fuori dal palcoscenico, Pavarotti era esattamente come tutti gli altri papà italiani: portava spesso una tuta blu con righe bianche sulle maniche con cui giocava a tennis o cavalcava, amava la praticità di una track jacket, si metteva un tovagliolo nello scollo della camicia e si sedeva a tavola.
Se un’altra superstar della lirica come Maria Callas si presentava come una figura regale, quasi ieratica, assurdamente chic anche nei momenti di quiete, il tenore di Modena cucinava in diretta nei talk show americani, si faceva ritrarre dal Time mentre nuotava in piscina, era sempre circondato da parenti e commensali. L’unica concessione all’opulenza che faceva erano quegli enormi e variopinti foulard, quasi un residuo dei costumi di scena del Rigoletto o della Turandot, indossati come un re avrebbe indossato il suo ermellino. La sua costante giovialità non gli tolse la simpatia di mezzo mondo anche di fronte ai suoi problemi col fisco da cui venne assolto ogni volta ma che lo seguirono per anni: nel 2000 dovette patteggiare un astronomico risarcimento da 25 miliardi di lire, il cui assegno venne consegnato dal tenore stesso all’allora ministro delle finanze Del Turco davanti a stampa e fotografi. Dopo aver depositato l’enorme somma, il tenore riuscì a scherzare: «Mi sento più leggero nell'animo e non solo...» disse, seppellendo un potenziale debacle con l’umorismo. Nel nostro paese a un politico non si perdona nulla, a un comico tutto.
Quanta parte ha avuto lo stile nella creazione di questo mito? Massima e minima. Minima perché, nei suoi anni, era più facile vedere Pavarotti sul palco o comunque in smoking che con i suoi look personali e dunque il suo stile emergeva da programmi tv o foto sulle riviste ma senza quell’incidenza, dato che era anche un look comune ai tempi e poco considerato rispetto al lavoro canoro; massima perché proprio quelle foto, nell’era di internet, si sono messe a circolare nuovamente suggerendo un’immagine familiare, divertente e assai avvicinabile oltre che spesso abbastanza scollata dalla statura del Maestro nel campo della musica lirica. Di lui piace l’eccesso e l’abbandono che quelle foto testimoniano, persino la trascuratezza di molte delle sue tenute oggi è diventata apprezzabile. In questo senso, se il lavoro di Pavarotti appartiene all’arte più elevata, i suoi outfit e l’apprezzamento per gli stessi è puro camp post-moderno. Quale dei due Pavarotti sopravviverà più a lungo nella memoria collettiva? Ci auguriamo entrambi, ma forse tifiamo per il primo.