La verità sul vintage buying negli Stati Uniti
Un'intervista tra buyer
07 Novembre 2023
In un mondo in cui sembra essere già stato detto o fatto tutto, in cui abbiamo la presunzione di appropriare nozioni o intere culture senza sforzo, esiste ancora una branca della moda dall’immaginario fumoso, dove le notizie rimbombano ad intermittenza, dove il non detto supera di gran lungo ciò che ci è noto: parliamo del vintage e dei processi di buying che lo regolano. Se nella moda canonica il processo di acquisto da parte di negozi e rivenditori è lineare nella maggior parte dei casi, nel vintage è meno schematico, regolato da variabili incerte, tra stock di grandi quantità, lotti comprati al buio, scarto potenziale, condizioni della merce e fluttuazioni dei margini. Si tratta di un’asimmetria informativa che ha generato negli anni miti e leggende, descrivendo il processo di acquisto e di selezione da parte dei retailer come un vero e proprio sport estremo, una formula magica impronunciabile, una barriera all’ingresso di un business ineffabile. Nel caso dell'heritage americano e della selezione diretta dagli Stati Uniti, si aggiungono le importazioni, le spedizioni internazionali, le dogane e la complessità sfocia nell’impossibilità. Dato che la maggior parte delle singole credenze sul settore è sbagliata, risulta necessario consultare un esperto per fare luce tra mito e realtà. Abbiamo fatto due chiacchiere con Gianluca aka Granpasso89 (sì, ogni riferimento a Aragorn, ramingo del Nord, unico erede al trono di Gondor nel Il Signore Degli Anelli non è affatto casuale).
Gianluca cura il buying di Raggedy Threads dal 2002, storico vintage shop con sedi a Los Angeles e Brooklyn fondato da Jamie, sua compagna. Insieme a Gianluca abbiamo provato a demistificare le credenze sul vintage e sul buying americano senza farci mancare una breve panoramica generale sul mondo second hand, su come si è evoluto negli ultimi anni e quali e quanto siano floride le prospettive future. «La differenza primaria è che in Italia hai un vintage dealer (chiamiamolo così) che spazia nel settore senza essere effettivamente un buyer full time e che nella maggior parte lavora nell'ambito vintage come hobby o side hustle. Cambia proprio la modalità di intendere il lavoro, in quanto il buyer di vintage è un lavoro qualificato e riconosciuto. A livello culturale ci passa un mondo: in negozio entrano spesso mamme con i loro figli, spiegano che un determinato capo è legato ad una determinata mansione o periodo storico, i bambini osservano ammirati strappi, graffi e macchie. È come se qui il mondo del vintage fosse connesso a loro, in qualche modo. Ricordo il primo capo vintage che ho portato a casa. Mio padre mi disse !ha dei buchi, restituiscilo" ». L’Italia culturalmente è cresciuta con l’idea che l'abito fa il monaco, quindi se ti presenti con qualcosa di slavato, di rotto o di riparato non puoi andare in banca, non fai bella figura, mentre io qui vado a parlare con il mio avvocato in Birkenstock, con la maglietta rotta e i pantaloncini.»
Oltre all’aspetto culturale, è interessante come in America l’approvvigionamento di capi vintage sia visto come l’attività più accessibile e banale del mondo proprio per l’immaginario che lo definisce, una sorta di contrappasso dantesco. Se in Europa il processo di acquisto di capi vintage è così complicato, negli Stati Uniti, paese di origine di tanti capi ormai divenuti trend, deve necessariamente essere estremamente basilare, una credenza ovviamente fallace e priva di fondamento. Nello specifico, si pensa che i flea market americani siano ancora quelli di venti anni fa, quando in realtà oramai sono più facilmente associabili a delle boutique del vintage. Si pensa che le rack houses, grandi magazzini di raccolta usato dove è possibile fare ricerca, siano pieni di pezzi d’archivio accessibili a tutti, senza considerare che la merce possa essere puntualmente rastrellata prima dell’apertura dai grandi player del vintage statunitense. Si pensa addirittura che le case e le farm abbandonate dove poter trovare antiche tele denim o indumenti appartenuti all’epoca delle grandi guerre siano di facile raggiungibilità.
«Le warehouse» racconta Gianluca, «sono letteralmente ormai degli strip club dove più spendi più hai, ma dove devi spendere migliaia e migliaia di dollari. In Italia mancano le estate sale, vendite dirette nelle case di persone che si stanno trasferendo oppure a cui è deceduto un parente. Tu ti metti in fila, entri dentro la casa e compri tutto quello che vuoi - ci sono delle app che ti dicono dove si trovano, imposti il raggio d’azione e vai. A volte capita che persone in negozio ti chiamino e ti dicano «senti mio nonno è morto, ha servito in Corea, ha lavorato alla Ford, posso portarti la sua roba?». Ma ci sono tante altre metodologie per acquistare vintage negli Stati Uniti. Ci sono anche quelli che scavano nelle case abbandonate senza autorizzazione, ma quello per me un po’ è un po’ come rubare. Altre persone invece lo fanno con cognizione di causa, contattando il proprietario di quella casa abbandonata chiedendo il permesso per accedervi.»
Il panorama vintage mondiale è mutato radicalmente negli ultimi decenni. Il Rose Bowl di Pasadena, uno degli eventi più illustri del settore è un termometro di queste trasformazioni: «tutti i flea market adesso sono boutique con prezzi altissimi, un cambiamento all’ordine del giorno. Alla fine degli anni '90 al Rose Bowl c'erano stand pieni di felpe, ma nessuno le comprava perché costavano $50, un prezzo al tempo considerato una follia. Sono le stesse felpe che ora si comprano per $500, a volte anche $5000. Non c'era l'hype che si è creato adesso attorno al mondo del vintage, c’era già la cultura, c'era il DNA, c'era la passione, vissuta in modo diverso. Io ricordo la prima volta che sono andato ad un flea market americano. Non penso di aver dormito la notte dall’entusiasmo ma fu proprio una delusione, non ho visitato nessun mercato per mesi.»
Raggedy Threads è un'istituzione del settore, affiancata negli anni da grandi show-room come Two Fold, Unsoundrags, Akimbo Club e simili in un panorama culturalmente ricco, mutevole, inflazionato e soprattutto complesso, eppure Gianluca sottolinea l’importanza di rimanere con i piedi per terra: «abbiamo sempre cercato di avere un price point “fair”. Una volta che ho fatto il mio, una volta che ho guadagnato quello che secondo me è giusto, sono a posto, non mi interessa rivendere una cosa a dieci volte il suo prezzo.» Ai giovani consiglia lo stesso - « l’onestà prima di tutto » - ma aggiunge anche: «Seconda cosa continuare a cercare novità, perché chiaramente il mondo del vintage è talmente vario che ti porta a scoprire ogni volta cose nuove e la soddisfazione più grande resta portare in negozio anche articoli lontani dall’hype e farli apprezzare al cliente. Ti dico in tutta sincerità che è dura, soprattutto qui a Los Angeles, c'è molta competizione, ma io comunque continuo a sperare che possano aprire sempre più realtà e che vi sia una sana competizione. Spero che i nuovi dealers e i potenziali nuovi acquirenti abbiano maggiore consapevolezza di quello che stanno acquistando. In questo momento è tutto offuscato dall’hype, questo mi spaventa perché manda in confusione la gente; io stesso sono stato vittima di questo fenomeno. Il bello è che, a prescindere dalle bolle che ci accomunano tutti, c’è ancora un gusto soggettivo forte, io posso essere interessato ad alcuni articoli tu per esempio ad altri. Il bello è la passione.»