La stagione della Couture eterea
Cercando l’impalpabilità nel caos
07 Luglio 2023
È difficile, oltre che sbagliato, quando si parla di Haute Couture, fare di tutta l’erba un fascio. Se il mondo del prêt-à-porter, naturalmente più commerciale, può essere suddiviso in filoni e trend, la natura più artistica della couture, la sua opulenza ma anche la sua natura iper-personale non consentono di ragionare veramente in termini di tendenze generali. Ogni couturier ha il proprio linguaggio e tanto basta – ma nelle collezioni che hanno sfilato negli ultimi giorni è continuato a tornare un certo tipo di abito vaporoso, tendenzialmente bianco (con le dovute eccezioni) spesso dall’aspetto delicato, spesso trasparente e impalpabile. Se un abito bianco da sposa è tradizionale in ogni collezione di Haute Couture, di solito in chiusura, ciò che colpisce nelle collezioni degli ultimi giorni è che, a prescindere da qualunque estro personale, questa couture eterea è tornata a fare capolino nelle vesti più inaspettate. Da Schiapparelli, ad esempio, dove l’enfasi sulla ricchezza e consistenza materica è sempre fortissima, Adut Akech ha sfilato con un insolito abito composto da bustier e impalpabile crepeline di seta mentre un look precedente, più scultoreo, era un enorme cappotto di angora bianco simile a una nuvola. Il solitamente stracarico Charles de Vilmorin ha riempito il suo show di veli delicati, cigni e cavalli usciti da stucchi rococò, simili a meringhe; pur lavorando con diversi concept sia Armani Privè che Thom Browne, Alexandre Vauthier, Iris Van Herpen e Chanel hanno incluso trasparenze e leggerezze estreme in alcuni dei propri look. Un bianco abito scultoreo ricoperto di piume di struzzo è apparso nella glaciale collezione di Balenciaga indosso ad Amber Valletta e nemmeno gli indipendenti non si sono risparmiati: Georges Hobeika, Tamara Ralph, Stéphane Rolland hanno tutti inserito look angelici ed evanescenti nei propri show. A dominare il trend, però, è stata Maria Grazia Chiuri con una collezione tanto tenue e diafana da sembrare esangue.
Anche nelle dichiarazioni dei designer si sono succeduti riferimenti alla decostruzione, al riduzionismo, al classicismo. Giambattista Valli ha detto a Vogue che «la modernità è radicata nel classicismo»; Virginie Viard ha scritto nella sua press release: «Sofisticazione e semplicità, permanenza e bellezza». Van Herpen voleva che «gli abiti vivessero, si muovessero, respirassero» mentre Daniel Rosenberry ha scritto di aver «trovato la libertà nei singoli pezzi, scomposti». E Thom Browne ha voluto, per l’abito bianco che ha chiuso la sfilata, «la massima traslucenza». Ma forse è stato Alexandre Vauthier, che ha presentato solo uno di questi candidi abiti eterei in una collezione molto precisa e concreta, a dire le cose meglio dichiarando: «Non sono un riduzionista, ma lo stato del mondo, il rumore e la durezza che ci circondano mi spingono a cercare l'equilibrio, a fondare il mio lavoro sulle sue basi essenziali. […] Non è il momento per l’opulenza». È chiaro che biancore e leggerezza non sono stati le fondamenta di tutte queste collezioni – non di meno è indicativo che tanti designer diversi abbiano, chi più chi meno, voluto evocare attraverso narrazioni così diverse tra loro una comune, aerea sensazione di vaporosità, di semplicità e di purezza. Ma al di là dell’ovvio senso di meraviglia che un abito di Haute Couture vuole (o dovrebbe) sempre evocare, questa ricorrenza rappresenta più una visione di “donna angelicata” che i designer vogliono proporci o riflettono piuttosto un’esigenza di escapismo che non riesce a realizzarsi del tutto?
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Osservando le diverse collezioni, si potrebbe forse dire che questo senso di virgineo candore vada spesso a scontrarsi con esigenze più immediatamente pratiche: al di là degli ovvi svolazzi di stile, l’Haute Couture vista negli ultimi giorni ha avuto un deciso orientamento no-nonsense. Posta l’insaziabile fame di lusso delle élite mondiali, il fatto che questa Couture Week sia una delle più grandi e affollate mai organizzate, non sarebbe forse troppo ardito ipotizzare che la clientela di Haute Couture stia crescendo numericamente in nuovi mercati-chiave come i paesi del Golfo Arabo (uno dei leitmotiv della settimana è stato l’ingresso dei couturier arabi nell’ecosistema di Parigi, con una mega-mostra al museo della Cité, un cocktail party extra-lusso al Ritz e il debutto ufficiale di Ashi Studio giovedì) o in India – ed è probabile che le selezionate e ricchissime clienti dell’Haute Couture di Parigi vogliano il sogno degli abiti da favola senza dover affrontare eccessive scomodità tipiche dell’avant-garde.
i feel like high fashion isn’t high enough, most brands are quite boring with their couture collections, i want to see real weird shit. couture is meant to be first and foremost art but many designers produce quite boring looks. iris van herpen understands my point
— arni (@paraxeusse) July 5, 2023
L’immediato romanticismo di questi look eterei dunque potrebbe rappresentare una maniera di sublimare una Haute Couture che in tanti casi tende sempre di più a un registro quotidiano, avvicinandosi alla sua concezione primigenia di “abito su misura” (pensiamo a come negli anni ’50, ad esempio, Mona Bismarck si fece fare dei vestiti da giardinaggio da Balenciaga) adatta all’uso probabilmente più quotidiano che se ne fa. Stiamo per uscire dal quiet luxury ed entrare nel nuovo e audace mondo del “true luxury” quello in cui l’artigianalità alimenta il desiderio? Se la crescita del valore di un brand come Hermès, diventato quest’anno la seconda azienda di moda dal maggior valore al mondo dopo LVMH e prima di Nike, è un valido indicatore, potremmo forse pensare che tra qualche anno non ci saranno che abiti di Haute Couture nei guardaroba delle donne più ricche del mondo. Mona Bismarck e i suoi completi da giardinaggio di Balenciaga, a questo punto, non potrebbero sembrare più moderni.