Una moda che si vuole diversa, ma non si decide a cambiare
Alla ricerca di un mondo nuovo, magari più vero, speriamo più buono
28 Giugno 2023
La pandemia, lontana e finalmente superata, aveva messo in discussione il modello di business su cui l'industria della moda continua a basarsi, lasciando apparentemente spazio alla luce del cambiamento. Ma oggi, dopo tre anni di dibattiti, alla domanda "cosa è cambiato?", la risposta è glaciale: niente. Anzi, il giro vorticoso di poltrone a capo della creatività dei più importanti gruppi ha contribuito ad aumentare la confusione che governa il settore, ripiegando sull'hype nel caso di artisti del calibro di Pharrell Williams da Louis Vuitton o Future da Lanvin, giocando sul sicuro con professionisti affermati nel caso di Sabato de Sarno da Gucci o Stefano Gallici da Ann Demuelemeester. Non ci sono più certezze, non è chiaro quale sia la giusta strategia per mandare avanti una macchina che richiedere sempre più denaro, tempo e abnegazione. Eppure tutti continuiamo a utilizzare processi e modalità nate oltre quarant'anni fa, quando le penne sostituivano le dita per scrivere e raccontare, e quando forse i fashion show avevano davvero senso, perché erano l'unico mezzo per dialogare con il proprio pubblico attraverso la stampa. Cambiamo, per non cambiare mai.
Tutti siamo consapevoli che più che vivere, la moda oggi, inseguendo un modello di business basato sulla ricerca di vendite sempre più alte, sopravvive, nell'attesa di una sorta di giudizio universale, figlio del contraddittorio tra i valori delle nuove generazioni e il fascino demoniaco del fast fashion. Pur essendo tutti consapevoli di ciò, alla domanda sul perché si continuano a fare gli show, la risposta appare stanca quanto onesta: è l'unica cosa che sappiamo fare. La paura, la pigrizia e l'egoismo guidano chi decide, solitamente troppo vecchio per capire le necessità e le volontà di un mondo che tenta di essere nuovo e traghettando la creatività verso modelli di business stantii. Il trionfo di Magliano e il successo di Setchu ricordano un po' la vittoria dell'Italia agli Europei di calcio del 2021: quella debole e rassicurante illusione che le cose stiano cambiando quando tutto resta immobile, perché il vero problema non è la mancanza di creatività, bensì la cornice in cui tale creatività agisce. Ne abbiamo visti tanti di designer promettenti risucchiati all'interno di un sistema che li preferisce redditizi invece che geniali, persi in un labirinto di showroom, PR, buyer e show che mettono da parte l'inventiva a favore delle vendite. Ed è così che marchi inizialmente di successo si spengono, entrando a far parte di un sistema vecchio, gerarchico, chiuso ed egoriferito, quando a volte basterebbe scegliere un modello direct-to-consumer per tagliare tempi e spese, mantenendo soprattutto quel filo magico e immediato con i propri consumatori.
Il cambiamento che tutti auspichiamo sicuramente passa attraverso la ricerca di nuovi creativi e di contesti dove farli vivere, ma diventa ancora più fondamentale per i brand tagliare i ponti con le abitudini del passato e costruire una community sana e reale, basata su un rapporto duale e di scambio. L'era di una moda esclusiva che guarda con distacco al proprio consumatore è finita e non cattura più l'attenzione delle nuove generazioni che preferiscono rifugiarsi nel vintage, fuggire dal presente tramite la nostalgia, o sostenere brand indipendenti con cui condividere estetica e valori. La necessità di un cambiamento è lampante, ma la paura di perdere il proprio privilegio prende il sopravvento su tutto il resto e così rischiamo di marcire ancorati a un mondo vecchio, basato su barriere e confini. E diventa lecito chiedersi che senso abbia per un intero settore far fatica a sopravvivere quando scelte diverse potrebbero farlo rifiorire. Alle nuove generazioni l'ardua sentenza e la sfida di aprire la via ad un mondo nuovo, magari più vero, speriamo più buono.