Perchè i big della moda vogliono monopolizzare il Made in Italy
Cosa succederà quando i grandi brand avranno comprato anche l’ultima fabbrica della Toscana?
16 Giugno 2023
Negli ultimi anni, garantire la continuità della supply chain della moda, specialmente per quanto riguarda le materie prime italiane, ha rappresentato una sfida significativa persino per i più forti titani del lusso. Le interruzioni causate dalla pandemia, seguite subito dopo dall'inflazione, hanno messo pressione sui fornitori e creato ritardi nella produzione. In risposta a questa situazione, numerosi brand di moda si stanno unendo per acquisire quote di fornitori con il fine dichiarato di tutelare l'artigianato italiano da forze esterne, ma con la reale intenzione di verticalizzare e controllare i propri processi produttivi senza dipendere da attori esterni. La collaborazione più degna di nota è avvenuta quando il Gruppo Prada e il Gruppo Zegna hanno annunciato di aver acquisito insieme una quota del 15% in Luigi Fedeli e Figlio, un produttore italiano di maglieria - la seconda volta che le due aziende si sono unite dopo l'acquisizione della maggioranza delle quote nel fornitore di lana e cashmere Filati Biagioli Modesto nel 2021. Un'altra partnership degna di nota è stata annunciata di recente da Chanel e Brunello Cucinelli, che hanno rivelato il loro accordo congiunto per acquisire una quota del 24,5% ciascuno in Cariaggi Lanificio, un fornitore italiano di cashmere rinomato per i suoi filati pregiati di cui Brunello Cucinelli possedeva già una quota del 43%. Allo stesso modo, entrambi i marchi hanno enfatizzato il loro obiettivo di proteggere il know-how e l'occupazione dell'industria italiana, contemporaneamente migliorando la tracciabilità e la qualità delle materie prime che utilizzano.
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Gli esperti riconoscono i numerosi vantaggi che derivano da tali collaborazioni, sia per i brand che per i fornitori. Tuttavia, mettono anche in guardia contro il rischio che un pugno di marchi di lusso monopolizzi la filiera italiana di lana e cashmere oltre che di altre materie prime come la pelle e il cotone. Di recente, LVMH ha acquisito la conceria Nuti Ivo, sempre in Toscana; Dior ha addirittura comprato un mobilificio per riconvertirlo a fabbrica di pelletteria; Fendi ha aperto la sua nuova giga-fabbrica sostenibile mentre Armani ha avviato una coltura sperimentale rigenerativa di cotone organico in Puglia. Questi stabilimenti hanno sì la funzione di mantenere in vita il know-how artigianale (spesso a queste fabbriche sono anche associate delle accademie dedicate alla formazione) ma, nel breve termine, stanno avendo l’effetto di saturare il letterale spazio produttivo della regione, dove praticamente non solo non ci sono più concerie “libere” ma si sta anche esaurendo lo spazio fisico in cui costruire nuove fabbriche. Intervistato da Vogue Business, Rémy Daguillard, fondatore dell'azienda di logistica Stellae International, ha sottolineato come, al momento, esista una specie di ufficiosa gara tra i brand per accaparrarsi nuovi siti produttivi in Italia ma anche che questa opportunità è accessibile solo ai grandi marchi con risorse sufficienti per investire nei loro fornitori e garantire una produzione efficiente. L’idea della verticalizzazione, comunque, non è nuova: praticamente da sempre, il Gruppo Zegna adotta un modello in gran parte integrato verticalmente, supervisionando i propri prodotti dalla selezione delle materie prime alle fasi di finitura, andando poi rafforzando il proprio portfolio di manifatture italiane con l’acquisizione di Tessitura Ubertino, produttore di lana, cotone, cashmere e pelle; di Dondi, azienda specializzata in maglieria, di Cappellificio Cervo e di Bonotto altro produttore tessile di quarta generazione.
Anche Chanel negli scorsi anni ha seguito la strada dell'integrazione verticale, acquisendo quote dello specialista di maglieria Paima nel 2021, dell’azienda francese Grandis e della conceria Renato Corti nel 2019 e di numerose altre aziende, creando più di 30 siti produttivi negli ultimi quattro decenni. Ma proprio per questo è indicativo che, per la prima volta nella sua storia, Chanel abbia collaborato con un altro marchio di lusso per acquisire una quota in uno dei suoi fornitori - la mossa tradisce, da parte dell'industria tutta, un senso di urgenza nell'accaparrarsi i principali poli produttivi del paese. Anche il Gruppo Prada e Brunello Cucinelli hanno attuato strategie simili in passato. Ma è stato dopo la pandemia che la febbre di acquisizione dei fornitori ha preso slancio – specialmente dato che molti produttori non sono stati in grado di riprendersi economicamente dall'impatto del COVID-19, facendosi dunque acquisire per rimanere a galla ma anche per accedere a capitali necessari all’investimento in nuove tecnologie come l'implementazione di intelligenza artificiale e robotica e l'ampliamento dei loro team. E dato che spesso tali aggiornamenti ed espansioni sono quasi impossibili da attuare per i singoli produttori senza una base clienti assai più ampia (a cui paradossalmente è più difficile accedere senza gli aggiornamenti), l’acquisizione da parte di un gruppo del lusso dalle tasche molto profonde rappresenta una soluzione adatta per continuare a esistere. Questo senza contare come anche gli sforzi per garantire la tracciabilità dei materiali e la sostenibilità delle proprie pratiche, ormai quasi un obbligo, comportino considerevoli spese che i nuovi soci di maggioranza possono coprire senza problemi.
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Per i grandi gruppi del lusso, i rischi dovuti a eventuali interruzioni della supply chain, che portano al rallentamento delle consegne e alla lievitazione dei prezzi finali, già relativamente limitati grazie alle loro capacità finanziarie e risorse, diventano sempre meno grazie a questa campagna di conquista delle manifatture italiane. Il problema riguarda, come sempre, i designer più piccoli e brand indipendenti che si trovano costretti a esplorare opzioni alternative, cercando produttori con tempi di consegna più brevi o materie prime più economiche e facili da recuperare – anche a discapito della qualità. Strategicamente, poi, quando i brand acquisiscono quote di maggioranza di un certo produttore, gli consentono di di continuare a produrre per altri marchi anche se è chiaro che possono comunque influenzare (e con ogni probabilità influenzano) le dinamiche di queste partnership dando priorità a certe linee produttive piuttosto che ad altre. È chiaro che il principale rischio è quello del monopolio produttivo: se un certo investitore di maggioranza volesse rovinare la concorrenza gli basterebbe impedire all’azienda di lavorare con un certo brand e tenerlo distante dalle maestranze produttive. Ovviamente non sempre è così ma la possibilità esiste – specialmente in un mercato della moda sempre più competitivo in cui anche i big spender iniziano a essere più prudenti con le proprie spese.