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Per la sua SS24, Martine Rose si è ispirata ai centri sociali inglesi

Moda fatta da londinesi, per i londinesi

Per la sua SS24, Martine Rose si è ispirata ai centri sociali inglesi Moda fatta da londinesi, per i londinesi

Per capire Martine Rose bisognerebbe essere londinesi. A tal punto il lavoro della designer britannica è radicato nella scena della sua città da sembrare quasi alieno per chi vive altrove e deve leggere, tra le righe dei suoi look, rimandi a scene e situazioni di vita della capitale inglese che sono poi rimandi alle sue molte community. Secondo quanto detto da Rose stessa ad Hypebeast dopo lo show della sua ultima collezione SS24 tenutasi ieri, le due grandi reference erano i centri sociali inglesi e (che non sono come i nostri ma sono più dedicati alle attività delle comunità locali, un po’ come nella serie Misfits) e la gioventù che si riunisce lì per ballare – non dunque un clubbing berlinese e decadente, ma un’atmosfera intima e schietta, quella da cui, come spesso accade negli show di Rose, un linguaggio familiare e specifico che è l’essenza stessa della propria identità e del proprio successo. Allo show, che voleva sublimare il linguaggio delle community di quartiere che si trovano nei centri sociali di Londra, mancava del tutto l’impostazione e l’alterigia della moda a cui siamo abituati: se le gemelle Olsen servono tè verde, latte di mandorla, frutta fresca di stagione agli show di The Row, qui c’erano bottiglie di Stella Artois e patatine Irish Tayto – l’adesione alla realtà era completa e priva di ogni affettazione. 

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Martine Rose guarda sempre alla strada, come il suo mentore Demna, per tornare a raccontarla – con meno ironia e nostalgia che il suo maestro, ma anche senza provare a prendere il quotidiano e trasformarlo in qualcosa “da ricchi”, la sua moda è un lavoro espressivo, riguarda poco la lussificazione rapace dei codici della working class. C’è solo nobilitazione, elevazione e celebrazione di un archetipo, affettuoso racconto del  presente e, in breve, un linguaggio che chi vuole può fare proprio ma che nasce per includere e non escludere, anche se sulle prime non è scontato comprenderlo. Per la collezione andata in scena ieri, Rose ha esplorato questi codici riproducendo la dimensioni eccessive e l’usura degli abiti usati, esprimendo la loro personalità singolare in maniera così spinta da raccontare, attraverso l’abbinamento degli abiti, estro e attitudini straordinariamente radicate nella realtà, quotidiani, ma anche espressivi di cambiamenti culturali più generali, riletti in un orizzonte conosciuto e riconoscibile che dunque diventa una sorta di lente con cui guardare al resto del mondo. I community center inglesi sono luoghi dove si va a ballare, poniamo, in un’atmosfera che non è quella ovattata e upscale del club esclusivo – sono posti dove comunità di quartiere, unite dalla stessa provenienza nazionale e culturale, spesso unite dalla semplice vicinanza si incontrano e si contaminano a vicenda riaffermando le proprie origini ma anche portando aggiornamenti ai "vecchi" costumi con l'inevitabile ricambio delle generazioni. Sono luoghi dove la bellezza o la desiderabilità di un abito o di un outfit non servono a prevaricare e conquistare gli altri o a sfuggire verso realtà di sogno ma a esprimere se stessi come individui e come parte di un gruppo. La dimensione è nota, rilassata ma anche profondamente originale dato che si risponde a esigenze più genuine del rimarcare il proprio status sociale. 

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In breve, Rose è così capace di raccontare il proprio mondo e le sue trasfigurazioni, le sue istanze di cambiamento ma anche il suo attaccamento al passato, raccontando anche di come i cambiamenti culturali di una realtà assai più vasta si riflettano in esso - in questo si trova la sua universalità non sempre facile da tradurre. Questa capacità di raccontare il grande osservando il piccolo, un processo di induzione (parola che nel suo significato di “portare dentro” rievoca la volontà, espressa da Rose nell’intervista a Hypebeast, di «spingere le persone dentro» il proprio immaginario) che è ben testimoniato dalla presenza della sua popolarissima collaborazione con Nike, sorta di ponte tra il piccolo mondo sentimentale che Rose va raccontando e la piattaforma più vasta della cultura pop che la designer continuerà a conquistare quest’anno con la prossima collaborazione con Clarks e quella, già passata, con Stussy. Non c’è forzatura – la sua è un tipo di comunicazione veristica (data l’area geografica inglese, potremmo parlare di kitchen-sink realism) che parla dei progressi e dell’evoluzione di un angolo delimitato della realtà che però rimane comunque specchio e miniatura di tutto quanto il resto dell'universo che lo circonda. Per molti versi, Rose rimane forse l’erede più fedele alla visione di Demna e del Vetements degli inizi ma anche la designer in grado di darne la rilettura più propria e originale.