Autoreferenzialità e archivio da Ann Demeulemeester e Nina Ricci
Come due designer Millennial affrontano un brand storico
06 Marzo 2023
In una Paris Fashion Week tiepida, senza particolare infamia né lode, il debutto di Ludovic de Saint Sernin e di Harris Reed alla guida, rispettivamente, di Ann Demeulemeester e di Nina Ricci era tra gli eventi più attesi. Come ci si poteva aspettare, entrambi i debutti hanno diviso pubblico e appassionati ma hanno anche evidenziato la maniera in cui due designer della generazione Millennial si approcciano a due brand storici e di nicchia, rileggendoli con un occhio all’archivio ma anche con una prospettiva caratterizzata da un’auto-referenzialità molto esplicita. Prima di discutere di questi due debutti serve un po’ di contesto, dato che questi due brand non sono affatto simili e possiedono posizionamenti e strategie assai diverse. Nina Ricci, ad esempio, che è parte del gigante dei profumi Puig, non aveva presumibilmente l’intenzione di rilanciare un business di abbigliamento di grande successo, non gli serve: il brand doveva tornare rilevante perché (diciamocelo) a chi importava qualcosa di Nina Ricci? Nessuna fonte online è in grado di parlare del brand senza menzionare che era una casa di couture e ora vende profumi – il che non è per forza un male in sé, anche Mugler e Gaultier vendono per lo più profumi, e dunque Reed ha avuto sicuramente più libertà nel costruire una collezione il cui compito precipuo non era quello di fare sold-out immediato. Diverse le cose da Ann Demeulemeester dove invece tanto era in ballo: il brand ha 40 anni alle spalle, una founder che non solo è viva e vegeta ma viene considerata dai suoi seguaci come una specie di Madonna laica, il proprietario del brand è Claudio Antonioli, gigante del retail ma anche amico di famiglia della founder e ha comprato e riavviato il brand proprio con lo scopo di elevarne l’abbigliamento. Con questa nuova collezione, dunque, De Saint Sernin doveva giostrarsi tra il rispetto di uno degli archivi più venerati della storia della moda e la necessità di portare delle sicure hit commerciali al brand senza cadere nella sterile copia del passato.
Come dicevamo, entrambi i debutti si sono svolti nel segno dell’auto-referenzialità. I look saranno anche tanti ma i designer stanno vestendo prima di tutto se stessi: le singole collezioni non stanno tanto provando ad aggiornare un immaginario ma sembrano volerlo accentrare intorno alla persona e personalità del direttore creativo. I modelli di Ann Demeulemeester sembravano tutti cosplay di De Saint Sernin, inizialmente la sua insistenza su una sensualità estenuata e carica, l’onnipresente nudità che è il marchio di fabbrica delle sue collezioni era parsa eccessiva e il risultato finale in definitiva narcisistico. In realtà, De Saint Sernin (che, leggiamo, per prepararsi alla collezione si è messo a indossare gli abiti d’archivio di Ann D. per sentirli più propri) ha proceduto con cautela ma anche con rispetto dell’archivio: le modelle che si nascondevano il seno nudo venivano dalla collezione SS95 del brand; i top trasparenti e la sartoria minimal-chic ricordavano alcuni dei look della SS98; le gonne di satin con i collari di pelliccia erano una reinterpretazione sexy dei look visti nella FW00 del brand. Insomma, per farla breve, De Saint Sernin è stato diligente e cauto, si è mantenuto su un terreno di gioco sicuro (mancavano del tutto le asimmetrie, la complessità e gli elementi più deliziosamente caotici e teatrali di Ann D.) che però rappresenta anche un’ottima base di partenza per un brand di cui, fino all’altro ieri, gli appassionati lamentavano il calo di qualità e la perdita di identità originale. Probabilmente in futuro sarà bello vedere De Saint Sernin mettere a lavoro il suo occhio e la sua mano su concept più strutturati e complessi – ma come ripartenza rispetto al passato o, se vogliamo, come reboot del brand il suo è stato prudente e ben riuscito. Sono mancati particolari voli creativi, vero, ma è anche vero che prima di volare bisogna sapere come stare a terra e, nel caso di Ann D., anche familiarizzarsi con quell'estetica wabi-sabi e quel vibe un po' stile Dark Souls che riprodurre con misura e contegno non è semplice. Molto del tailoring però era alquanto desiderabile, anche se in futuro andrà evitato quanto possibile l’effetto basicness che, se la semplicità di questa collezione dovesse divenire ripetitiva o sistematica, potrebbe verificarsi. Ma siamo fiduciosi.
Quanto a Nina Ricci, il tasso di auto-referenzialità sembrava maggiore. Considerato l’effettivo peso della couture di Nina Ricci nella storia della moda (diciamo che non è una Vionnet o una Madame Grès) e il numero di direttori creativi cambiati dal brand, il criterio del rispetto dell’heritage storico del brand non era affatto rigido come quello applicato a De Saint Sernin. Di base, Reed ha prodotto i look che avrebbe potuto produrre per il suo stesso brand: le forme delle gonne, i completi sartoriali, i mega-cappelli stile Carmen Sandiego – il tutto con un sovrappiù di colore e di esuberanza. Ma, come designer, Reed è una specie di uccello raro nell’industria della moda: le sue collezioni non sono mai state commerciali, non c’è un prêt-à-porter e nemmeno delle sfilate convenzionali – l’aria di celebrità che lo circondava ha preceduto anche il successo dell’abbigliamento, portandolo a produrre collezioni di gioielli e candele per la casa che di solito, per un designer, arrivano dopo, come coronamento e complemento al lavoro nell’abbigliamento e non prima del successo mainstream. Ma, come si diceva, Reed è di un’altra generazione, lui stesso è il suo brand incarnato e il prodotto che vende è una visione e un'ideologia. Per moltissime delle sue collaborazioni, Reed è anche modello oltre che creativo – il suo volto e la sua identità sono un selling point, e forse è per questo che la collezione di Nina Ricci pare uscire poco da linguaggi a lui noti e non si immedesima in un* cliente ideale. È il cliente che deve immedesimarsi in Reed che, per altro, ha già una community perfettamente strutturata che penserà senza dubbio a guidare le eventuai vendite. Lasciamo ad altri le considerazioni sulla riuscita o meno della collezione – il suo obiettivo, a parere nostro, era quello di ridare rilevanza e visibilità a un brand ormai ridotto a una conchiglia vuota in cui, accostando l’orecchio, si sentono le lodi dei successi parigini ante-bellici e che ancora vende una quantità sorprendente di profumo. Con il suo arrivo Reed ha operato una specie di trasfusione di sangue: la sua vasta e vitale community, incanalata nel business di Nina Ricci, vuole ridare vita a un brand anemico. Bisogna capire se lo farà e come – ma se Internet ci ha insegnato una lezione è quella di non sottovalutare mai una fandom.