Il 2023 è l’anno in cui libereremo dei trend?
Se tutto va di moda, niente va di moda
28 Dicembre 2022
«Arriveremo a un punto in cui ci saranno così tanti micro-trend che sarà impossibile identificarli – in questo modo il ciclo dei trend come lo conosciamo imploderà», prevedeva quest’estate Mandy Lee, la trend forecaster dietro l’account TikTok @oldlooserinbrooklyn. Un pensiero di recente ripreso anche da Hypebeast sulle cui pagine Dylan Kelly si domanda se il 2023 sarà l’anno del «nothingcore», appellandosi ai propri lettori per far sì che il ciclo dei trend venga non rallentato ma del tutto obliterato. Le ragioni le conosciamo: sostenibilità, sovraconsumo e via dicendo. Lasciando per un attimo da parte la questione della sostenibilità del business model della moda, argomento che abbiamo già toccato in precedenti articoli, l’articolo di Kelly crea un’interessante triangolazione tra il furioso ciclo dei micro-trend, il successo astronomico di Shein e la rapidità con cui si moltiplicano i contenuti e le narrative di TikTok. Inutile dire che tutto si lega all’abitudine di apporre il suffisso –core alla fine di qualunque parola, con risultati caotici o del tutto trascurabili (si è parlato tanto di regencycore, ad esempio, senza che si vedessero per strada donne vestite come personaggi di Jane Austen) e che già all’interno dell’industria della moda sono considerati per lo più esasperanti. In breve, non ci siamo solo stancati della monotona successione di trend e voghe effimere, ma iniziamo a guardare queste tendenze con diffidenza – onde che si abbattono sul bagnasciuga, sostituite da altre onde e via dicendo. Vale dunque la pena chiedersi: il 2023 sarà l’anno in cui niente sarà in tendenza?
@oldloserinbrooklyn #stitch with @laini ozark everything is back all at once #fashiontrends #trendcycle #fashion original sound - Mandy Lee
Quando nel passato un trend si diffondeva, era di solito legato a una precisa subcultura che esisteva fisicamente: quelli degli skater e dei punk, poniamo, erano movimenti culturali continuativi e la loro “divisa” era il derivato di questa cultura e del lifestyle che essa implicava; se invece nel 2022 si è parlato di moda Regency o Dark Academia invece è stato solo perché moltissime persone hanno guardato una certa serie tv – qualcosa di molto più aleatorio e meno durevole. Più che rappresentare tendenze, queste diverse estetiche rappresentano delle caselle o registri stilistici che esistevano da prima e che dunque rielaborano il passato, rititolandolo e compartimentalizzandolo per un più facile consumo ma senza che la realtà lo supporti. In pratica è come giocare a mascherarsi da diversi personaggi o archetipi culturali che rimangono intercambiabili, sconnessi dal discorso culturale più ampio e dunque incapaci di fare presa sulla coscienza collettiva in modo significativo. L’estetica della Coastal Grandma, ad esempio, è il risultato di un moodboard pieno di foto di Diane Keaton e dei film di Nancy Myers: è meno un trend che una vera e propria etichetta o il nome che potremmo dare a un costume – non riflette niente di nuovo. Questa sregolatezza e irrazionalità, che può essere applicata a moltissimi altri micro-trend aiuta forse da un lato a vendere alle masse e nel breve periodo, ma rischia di stancare i veri big spenders che sono anche il tipo di clientela che molti brand di lusso oggi vanno cercando. Altri trend più ampi, come il Y2K o il gorpcore, tendono a durare per uno o due anni al massimo magari non esaurendosi del tutto alla fine, ma comunque sgasandosi del tutto e smettendo di fare vera notizia.
Ma c’è davvero stato un anno in cui non esistevano trend? Forse, forse più di uno. Prima che i social media esplodessero e prima della mania dello streetwear che avrebbe dato all’industria della moda il suo assetto attuale (i drop, le release limitate, le collaborazioni, l’influencer marketing e via dicendo) ovvero al principio degli anni ’10, l’ultima era di Franca Sozzani da Vogue più o meno, l’estetica generale di ciò che appariva nelle campagne di moda era allo stesso tempo più uniforme e più stabile. Scorrendo vecchie campagne menswear di dieci anni fa, si nota sicuramente come i look fossero più conservatori e per certi versi prevedibili rispetto a oggi, ma anche come quegli stessi look facessero parte di un filone estetico continuativo relativamente fisso rispetto al caos (non per forza negativo) di prodotti e stili che vediamo oggi. Persino lo styling degli editoriali delle riviste, ad esempio, prevedeva dei full look che non replicavano necessariamente quelli delle sfilate e dunque non appartenevano a una narrativa sorvegliata dai brand. Le campagne di Louis Vuitton o Gucci dell’epoca erano certamente più noiose, eppure possedevano anche una qualità atemporale che non le cristallizzava in uno specifico anno o stagione. Era chiaramente il riflesso di un mondo privo di social, oltre che di una clientela della moda assai più vecchia e tradizionalista che non immaginava nemmeno per caso che un giorno si sarebbe discusso di diversity, di genderless o che un cliente del lusso sarebbe stato giovane abbastanza da indossare una hoodie. Le vendite, all’epoca, erano sicuramente più basse ma allo stesso tempo siamo pronti a scommettere che fossero anche più costanti, non turbate da polemiche social, non dipendenti dalla volubilità del pubblico e degli algoritmi.
2010s fashion was so atrocious I really don’t want that fashion cycle to ever come back fr after y2k let’s just go back to doing whatever
— shupasaiyan (@999NAMEK) December 23, 2022
Le prossime sfilate di inizio 2023 potranno chiarire o comunque illuminare il futuro. Certamente un approccio timeless al lusso, come tanto amano ripetere gli insider della moda, potrebbe essere il principale antidoto alla disconnessione tra ciò che sembra piacere al pubblico e a ciò che i brand provano a vendergli – bisogna capire però verso che esiti porta un tale approccio. Per tornare alla citazione iniziale, Mandy Lee suggerisce che l’esaurimento della trend-mania porterà tutti a volersi esprimere individualmente attraverso i propri abiti senza per forza aderire a più ampi moodboard visivi o culturali. Speriamo sia così. Dopo un 2022 che è parso come il compimento di un ciclo per l’industria, si aspetta ancora la figura che proporrà un nuovo look e una nuova silhouette capaci di definire un decennio.