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L’utopia di una moda più piccola

Classismo, sovraconsumo, apocalisse

L’utopia di una moda più piccola Classismo, sovraconsumo, apocalisse

A rischio di suonare cinici bisogna ammetterlo: nessuno si sta veramente sforzando per rispettare gli Accordi di Parigi del 2015. Ogni anno si susseguono gli inviti e le esortazioni a fare di più, ma ogni anno quelle esortazioni cadono nel vuoto. L’accordo, ratificato da tutti i paesi UE e in cui sono coinvolte tutte le principali potenze mondiali, entrato in vigore il 4 novembre 2016 ha come obiettivo a lungo termine il mantenimento «dell'aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e di proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C», come si legge sul sito del Consiglio Europeo. La sensazione però rimane che nulla sia stato fatto davvero e un recente report di nome Unfit, Unfair, Unfashionable: Resizing fashion for a fair consumption space mostra in effetti come più tempo passa più i tagli che vanno fatti ai consumi devono essere radicali – per non dire brutali. Evitando i giri di parole, WWD interpreta così i dati del report: «I consumatori più ricchi di paesi come Regno Unito, Stati Uniti e Giappone dovrebbero acquistare in media solo cinque nuovi articoli di moda all'anno entro il 2030 per mantenere l'obiettivo climatico di 1,5° C». Mentre in termini più miti il report stesso «considera un totale di 74 indumenti (comprese le scarpe) in uso attivo come livello di sufficienza in un paese a due stagioni, e un totale di 85 indumenti in un paese a quattro stagioni» e prosegue dicendo che «in media, le emissioni del 20% più ricco erano 20 volte superiori a quelle del 20% più povero. Questo rapporto varia sostanzialmente da Paese a Paese, coerentemente con i livelli di disuguaglianza di reddito. In base a questa analisi, il 20% più ricco dovrebbe ridurre la propria impronta dell'83% nel Regno Unito, del 75% in Italia e Germania e del 50% in Italia e Germania e del 50% in Francia, considerando alcuni paesi rappresentativi». 

Considerando però come in sostanza tutti i brand con una quotazione in borsa mirino, nelle pubblicazioni dei propri risultati trimestrali, a una crescita continua ed esponenziale, si capisce bene che se si dovesse davvero, incredibilmente, raggiungere gli obiettivi degli Accordi di Parigi, l’industria della moda dovrebbe rinunciare al suo giro d’affari tra i 1,7 e 3 trilioni di dollari annui. Immaginate: gli screzi tra Kering e Alessandro Michele erano partiti perché Gucci era cresciuto “solo” del 9% nell’ultimo trimestre e Pinault voleva accelerare la crescita del brand – cosa potrebbe accadere se davvero i clienti più ricchi del mondo acquistassero solo un massimo di cinque capi l’anno? Il pensiero fa quasi tremare ma c’è un’ulteriore considerazione da fare sulla maniera in cui nella nostra società si usano due pesi e due misure per quanto riguarda la questione del sovraconsumo. Per dirla con le parole di Christine Ro su Forbes: «Le abitudini di spesa delle persone meno abbienti sono oggetto di una forte indignazione classista; chi scrive le notizie ama osservare le orde di persone che fanno la fila fuori dai rivenditori di basso livello durante i saldi, per esempio. Ma è chiaro che i più ricchi stanno facendo danni enormi all'ambiente». La questione, comunque, prescinde dalla classe sociale: sarebbe difficile oggi, tra le migliaia di brand in circolazione, addossare la colpa a un ceto o all’altro, tutti consumano alla stessa maniera e cioè troppo. Gli autori dello studio concludono dunque che l’intera industria della moda dovrebbe regredire ai livelli produttivi del 2010 – uno scenario chiaramente impensabile nello stato attuale delle cose. 

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Le soluzioni proposte dal report sono sempre le stesse: comprare meno, riparare, riciclare, mantenere, smaltire responsabilmente. Eppure queste misure, per quanto ragionevoli, non sembrano troppo applicabili. Nel frattempo si profilano all’orizzonte problemi che neanche tutto il poliestere riciclato del mondo saprebbe risolvere. Per citare un articolo di BoF titolato in maniera abbastanza schietta Fashion’s Business Model Isn’t Fit for Climate Change, «l'industria della moda ha in gran parte inquadrato le sue risposte alla crisi climatica intorno a questioni ambientali, come i tessuti riciclati, l'uso dell'acqua e le emissioni di gas serra. Ma l'industria sta ignorando gli impatti climatici che riguardano direttamente e drammaticamente i fornitori di abbigliamento e i loro lavoratori». A questo punto l’articolo cita uno studio della Cornell University in cui viene illustrato l’impatto geografico e idrografico del cambiamento climatico nei territori dove oggi si producono più vestiti come il Bangladesh, il Vietnam o la Cambogia. Il report dice in maniera chiara che «le principali aree di produzione dell'abbigliamento saranno sommerse entro il 2030». Le zone più preoccupanti sono forse Dhaka, Guangzhou e Ho Chi Minh, dove un numero immenso di fabbriche potrebbero finire sott’acqua. E questo senza considerare il riscaldamento dell’atmosfera, che dovrebbe salire verso livelli sempre più catastrofici.

È chiaro che l’industria della moda nel suo complesso non può veramente risolvere questi problemi, che riguardano anche il welfare dei lavoratori stessi. A questo punto però, la questione ha più a che fare con la gestione delle aspettative che con l’offerta di soluzioni: lo studio della Cornell University parla di una “rinegoziazione” necessaria tra «pianeti (investitori, regolatori, sindacati, attivisti e fornitori) che raramente si trovano allineati»; mentre lo studio che citavamo all’inizio afferma che «è necessario un approccio di cambiamento all’intero sistema». La verità in ogni caso è che quanto suggeriscono implicitamente questi studi, ovverosia lo scaling back di un’industria che impiega 1 persona su 6 sul pianeta, è forse il sogno di Serge Latouche e dei propositori della “decrescita felice” ma è francamente difficile da immaginare sia in termini di fattività che in termini di scala delle conseguenze che ne seguirebbero. Non di meno, il tempo continua a scorrere che ci piaccia o no e, se le proiezioni di Cornell University sono corrette, entro otto anni saranno il livello degli oceani e l’aumento delle temperature a mettere una fine alla sovrapproduzione  – ma alle loro condizioni e soprattutto a un prezzo umanamente elevatissimo.