È sempre più difficile fare il direttore creativo nel 2022
Può esistere un equilibrio tra l’arte e la commercialità?
25 Novembre 2022
Ieri, il mondo della moda è rimasto scioccato all’annuncio che Alessandro Michele avrebbe lasciato la direzione creativa di Gucci dopo sette anni che hanno trasformato il brand a 360° facendone il più redditizio della scuderia di Kering. In un articolo pubblicato da WWD poco prima dell’annuncio ufficiale, veniva riportato che «a Michele era stato richiesto di iniziare un cambio di marcia nel design per accelerare la crescita del brand, ma il designer non ha soddisfatto le direttive». E anche se Kering non ha ovviamente negato o confermato che questa fosse la reale motivazione, l’idea non è per nulla implausibile e la possibilità che questa sia stata la ragione del divorzio rivela la perturbante complessità del ruolo che un direttore creativo deve ricoprire oggi nell’industria della moda.
Alessandro Michele è diventato il direttore creativo del brand nel 2015 e attraverso gli anni è riuscito a creare un’estetica che molti hanno definito “strana” quando non “brutta”. Il designer ha cambiato la maniera in cui il pubblico percepiva la moda e la bellezza con un concept che non veniva applicato solo agli abiti ma si estendeva anche all’arredamento, alle stoviglie, ai profumi e via dicendo. Quando qualcuno diceva «questo fa molto Gucci» il senso di quelle parole era molto chiaro – e questo proprio grazie a lui. Attraverso quest’estetica, Michele ha guadagnato uno status e un seguito di culto di misfit, massimalisti e da chiunque si sentisse incluso dalle idee che concepiva, portando il brand da una revenue annuale di 3,5 miliardi di euro a circa 20 miliardi di euro. Adesso, il suo addio al brand fa sorgere delle preoccupazioni perché proprio lui era, per molti, il simbolo di un equilibrio tra artisticità e commercialità: i suoi lavori sono arte, intrinsecamente belli e carichi di significato, ma allo stesso tempo vendevano, e anche tanto. E proprio per questo l’idea che lui se ne sia andato perché Kering desiderava che il brand crescesse a un ritmo sempre più alto solleva la questione sul ruolo di un direttore creativo oggi. Creare è arte o commercio? La moda del 2022 conserva ancora spazio per l’artistico, lo sperimentale e il divino?
@80slover7 Gucci now vs 90s #gucci #style #oldmoneyaesthetic #fyp sweet caroline but dark academia - mike hunt
L’industria della moda è, per così dire, la vicina di casa dell’arte. Principalmente perché l’arte è a sua volta la vicina di casa del lusso, eppure la maniera in cui l’industria funziona, sempre in cerca del nuovo e del fresco, rende chiaro che il suo terreno non è fertile per il fiorire dell’arte. I designer vogliono essere artisti, ma allo stesso tempo devono essere anche dei venditori – e in molti casi devono essere più venditori che artisti. Un complesso di identità che non riguarda solo Alessandro Michele nello specifico ma molti altri suoi colleghi. La scorsa stagione Demna ha creato per Balenciaga una collezione che intendeva denunciare l’idea di capitalismo che era brillante come opera d’arte ma che, sul piano commerciale, aveva poco senso: come si fa a denunciare il capitalismo quando un paio di jeans non costa meno di 1500€? I CEO dei brand rendono la situazione ancora più spinosa: in un articolo di BoF, Angelo Flaccavento diceva come la nuova guardia di direttori creativi da Missoni, Etro, Bally e Ferragamo, fosse «priva del coraggio necessario a lasciare il segno», una colpa che andava addossata in parte ai CEO dei brand che hanno visioni molto specifiche per raggiungere i giovani consumatori e creare prodotti best-seller. In ogni caso, si può anche comprendere che nel caso di un designer agli esordi vengano adottate delle cautele anche se pare più vero che sia l’industria ad avere sempre più richieste e standard sempre più alti per i propri creativi in generale.
Where were you when you saw Alessandro Michele’s first Gucci collection? (I was in the GQ Style office slash fashion cupboard and we all stopped what we were doing to live stream it and were subsequently shook) pic.twitter.com/xcZIBMZZlB
— Hannah Tindle (@hannahtindle) November 23, 2022
Il fatto è che l’industria ha cambiato marcia rispetto all’epoca in cui John Galliano dirigeva Dior per 15 anni e Karl Lagerfeld che ha passato tutta la propria carriera da Fendi, con la durata media di un direttore creativo oggi che si fissa tra uno e tre anni. E se un tempo il ruolo di un direttore creativo era più simile a un matrimonio del creativo con il brand e il suo CEO, in salute e in malattia, ultimamente molti di questi “matrimoni” si concludono in metaforici divorzi perché i creativi sono diventati sacrificabili per i titani dell’industria. E se l’industria stessa si vanta di essere meno moralmente compromessa del fast fashion, sarebbe utile riflettere un attimo, perché anche se la maniera in cui vengono creati prodotti può forse essere più etica, il ritmo col quale i creativi vengono usati e poi riciclati è orribilmente simile a quello con cui Shein fabbrica i suoi vestiti.