La seconda vita segreta dello streetwear
Un trend oltre i trend
14 Ottobre 2022
La settimana scorsa, sul palco del The Tonight Show of Jimmy Fallon, Quavo si è esibito indossando una moto jacket di Iuter, streetwear brand italiano con vent’anni di storia che si era trovato sulla cresta dell’onda dei trend quando, nei primi anni ’10, proprio lo streetwear era diventato la corrente principale della moda. Oggi il brand, insieme ad altri, rappresenta uno “streetwear del paese reale” che esiste e continua a crescere nel contesto di una moda che dello streetwear si è disamorata: sull’ultima passerella di Off-White™ ha sfilato una collezione SS23 dove in effetti si sono visti più stivali e mocassini che sneaker e soprattutto dove i blazer hanno soppiantato del tutto le hoodie. Altrove, durante le principali sfilate dell’ultimo fashion month, i pilastri di quel mondo streetwear che impazzava solo cinque anni fa erano altrettanto assenti, con la notevole eccezione dell’ultimo show di Balenciaga dove hoodie, trackpants e sneaker hanno continuato a solcare la passerella pressoché indisturbati. «Gli uomini prediligono pantaloni a gamba larga o cargo e camicie oversize - abiti che possono essere indossati nella maggior parte delle occasioni», dice a Business of Fashion il consulente Chris Black parlando del boom del menswear registrato dai retailer negli ultimi anni. Lo stesso Balenciaga, per altro, è diventato più sinonimo degli show di couture, di sfilate high-concept e dei red carpet che delle Political Logo t-shirts e delle Triple S viste addosso a tutti gli influencer per un certo periodo ma ancora vendute a tonnellate dal brand. Nel frattempo, gli streetwear brand classici, evolutisi in organismi globalizzati e avendo alzato il proprio price point seguendo la marea della propria popolarità, hanno perso in autenticità allontanandosi dalle metaforiche strade e diventando sempre più brand di moda veri e propri.
In breve se il trend macroscopico dello streetwear è venuto meno nel mondo della moda è per colpa del suo stesso successo: i brand di lusso lo hanno co-optato a morte; i brand heritage come Supreme o Stussy sono diventati giganti commerciali rivenduti a peso d’oro nei siti di resell mentre, ispirati dagli insegnamenti di Abloh, una moltitudine di amateurs ha iniziato a stampare e vendere le proprie hoodie e t-shirt portando a una completa diluizione dell’appeal dello streetwear. Se sneaker e hoodie rimangono ancora categorie commercialmente solide e per molti versi irrinunciabili, nei front row delle sfilate, nei reportage della fashion week e persino addosso agli influencer la loro centralità culturale sembra irrimediabilmente persa anche se la loro presenza e popolarità sembra al contrario essersi solidificata. Persino brand come Wardrobe NYC e Aimè Leon Dore, due potenziali esempi di sopravvivenza dello streetwear, sono più associabili rispettivamente al luxe-minimalism e a un’estetica preppy/vintage la cui visione e percezione è più top-down che bottom-up, e cioè deriva da una visione e da un immaginario che vengono proposti al pubblico da un designer, proprio come nella moda, e non da una tale diffusione presso una nicchia di pubblico che finisce per farli diventare popolari globalmente, come lo streetwear. Prima dell’hype culture, Supreme e Stussy, per fare due esempi, avevano infatti costruito una audience solida e ingaggiata che li ha tenuti in vita ben prima del boom sul mercato globale – quando il mercato globale li ha “scoperti” i due brand erano già di culto.
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Se gli OG dello streetwear oggi sono brand con collezioni stagionali e direttori creativi che si presentano agli show della fashion week, quella accessibilità e quel fascino oggi sono nelle mani della nuova guardia: sarebbe difficile passare un’intera giornata in giro per le strade di Milano senza vedere una felpa o un cappello di Iuter, di Octopus Brand o Dolly Noire mentre marchi come Disclaimer, 545, Propaganda, Trapstar o Vision of Super diventano sempre più popolari. Per la Gen Z nello specifico, però, al discorso culturale se ne sostituisce uno economico: in un mondo di streetwear elevato dove una hoodie costa 150€, i giovanissimi vanno a caccia di prodotti sotto i 50€ e si rivolgono, quando non a brand di workwear come Carhartt o Dickies, a marchi fast fashion come H&M, Pull & Bear, Bershka e Alcott. Curiosamente, però, i gusti di queste nuove generazioni rimangono devoti all’estetica di brand celebri nel campo streetwear come BAPE, Palm Angels, Marcelo Burlon e DSquared2 di cui però si comprano prodotti quasi sempre fake attraverso tutti gli espedienti possibili: si va dalle felpe Padola vendute su Amazon e dagli zaini di Sprayground che vampirizzano l’estetica di Nigo fino ai servizi di vendita di falsi under the radar che si muovono attraverso Telegram e Instagram con pagine che vendono “originali scontati” dell’80% con l’implicito intendimento che si tratta di prodotti contraffatti.
Rimane notevole come, anche dopo l’iper-diluizione del mercato portata dal fast fashion, l’estetica e lo stile dello streetwear OG di BAPE, del Givenchy di Tisci, delle prime collezioni di Palm Angels o MSGM oltre che di Off-White e di Marcelo Burlon continua a esistere in una veste puramente esteriore e cioè distaccata dal suo lato culturale e limitata alla superficialità dei suoi loghi. In breve, la Gen Z apprezza i motivi camouflage e le bocche di squalo del finto BAPE che si può comprare su Amazon a 25€ ma forse l’acquistano più per un meccanismo imitatorio che per un reale apprezzamento di Nigo, dei Teriyaki Boyz e dello streetwear giapponese; così come pochi membri della Gen Z saprebbero dire il nome del fondatore di Palm Angels o potrebbero spiegare storicamente che influenza hanno avuto sulla moda Marcelo Burlon e il New Guards Group. Una mancata conoscenza che non è colpa delle nuove generazioni, figurarsi, ma che evidenzia piuttosto come l’eredità estetica dello streetwear sia in realtà straordinariamente longeva – sia che si tratti dell’imitazione acritica ma fedele del passato, sia che si tratti dei brand indipendenti che dominano oggi il mercato. A rimanere intatta è comunque ciò che Business of Fashion definisce «l’irriverenza dello streetwear verso la moda» e dunque la sua capacità di operare e prosperare al di fuori dai confini dell’industria e dei cicli dei suoi trend.