Le t-shirt a sfondo politico stanno tornando?
“Politico” è il nuovo “edgy”
10 Ottobre 2022
La Paris Fashion Week appena conclusasi si è svolta con la consueta energia e i consueti alti e bassi, ma senza che uno o un altro show forassero la superficie della fashion bubble – con l’ovvia eccezione di Kanye West che con una t-shirt che recitava il famigerato motto “White Lives Matter” ha gettato nello scompiglio mezza industria della moda. Prescindendo da quanto lo statement di Kanye sia stato inappropriato e offensivo, bisogna certamente notare come, sul piano della fenomenologia sociale, in un intero fashion month pieno di corpi più o meno nudi, dettagli BDSM e visioni della moda sempre diverse, il potere di dividere e sconvolgere e, in sostanza, di essere edgy sia detenuto da uno slogan politico volutamente provocatorio stampato in un lettering di solito associato ai meme e dunque privo della benché minima originalità. Per aumentare il livello di randomness della propria simbologia, poi, Kanye ha stampato questo slogan a una t-shirt commemorativa di Giovanni Paolo II – il personaggio pubblico che meno ci si sarebbe potuti aspettare di vedere addosso a Kanye. La storia non si conclude qui perché il giorno dopo lo show di Yeezy, mentre la stampa di moda e le celebrity del clan Kardashian tuonavano sui social, Kanye andava nel backstage dello show di Enfants Riches Deprimès e fotografava con entusiasmo le t-shirt di Mao Zedong che Henry Alexander Levy ha reso il fulcro della propria collezione. Due icone politiche in due giorni, insomma, collegate da una ricerca di edginess che per entrambi i direttori creativi è qualcosa di sistemico e personale ma soprattutto per cui all’indossare l’immagine di un personaggio non consegue un’adesione ai suoi ideali ma diventa insieme citazione pop, sensazionalistica e scioccante. Sorge dunque la domanda: indossare icone e statement politici sulla propria t-shirt è diventato la nuova controcultura?
Prendendo in esame il caso specifico di Enfants Riches Deprimès, in cui la disconnessione tra immagine e ideologia è più evidente, si potrebbe facilmente far notare come, nella sua ricerca dell’oltraggioso e del piccante, Henry Levy abbia in passato saccheggiato l’iconografia politica dell’ultradestra: la Croce di Ferro nazista è presente in numerosi capi prodotti da ERD in passato, così come Paperino che fa il saluto nazista e persino la celebre Swastika Flame t-shirt che, pur con toni di ribellione anti-fascista, ha una svastica al suo centro – senza parlare delle occasionali aquile o della Porta di Brandeburgo. Nello specifico, la decisione di Levy di includere iconografie che richiamano il nazismo assume un altro significato considerato che il designer e la sua famiglia sono ebrei (come riporta Complex, Levy scrisse sul proprio Facebook nel 2016: «Se non fossi ebreo mi ucciderei. Perché non sarei ricco») e che in realtà la tattica di scioccare a ogni costo deriva tanto dalla sua immersione dei meandri del punk, sottocultura che non disdegnava di giocare con l’iconografia nazista, che nella sua ricerca di una «couture elitista e nichilista», come lo stesso Levy disse a Complex. Sarebbe interessante conoscere, ora che Kanye ha anche rincarato la dose con tweet dai toni antisemiti nella notte di domenica, quale sia la posizione di Levy sugli statement politici come intrattenimento e controcultura.
Il morso e il graffio del nichilismo, in ogni caso, emergono proprio nella brutale noncuranza con cui i riferimenti alla traumatica vicenda del nazismo vengono maneggiati. Lo stesso evidentemente vale per la simbologia di Mao Zedong e del Partito Comunista Cinese che invece che rifarsi al punk è probabilmente un riferimento alla fascinazione verso il comunismo come controcultura provata da registi della Nouvelle Vague come Godard, autore di La Chinoise e Week End. In questo caso, si può presumere che l’iconografia maoista andrebbe interpretata come nella doppia accezione di shock factor e di gusto per l’ingenuità di certe stampe commemorative d’altri tempi – un gusto da souvenir. Proprio nella categoria del gusto naïf dei souvenir sembrerebbe collocarsi la parte frontale della controversa maglia di Kanye. La stampa-collage del viso di Giovanni Paolo II corredata da una sciropposa frase in spagnolo non suggerisce tanto una personale devozione (Kanye si dichiara cristiano ma non è cattolico) quanto il desiderio di evocare la religiosità indossando ironicamente il “merch” della principale icona pop del cristianesimo occidentale. Per certi versi l’intenzione con cui la t-shirt sembra essere stata indossata non è eccessivamente distante dalla maglia “Jesus is Lord” creata per la collezione FW10 di Givenchy da Riccardo Tisci che, tra parentesi, è amico di Kanye e si trovava allo show di lunedì scorso. Va da sé che la questione della laicità delle icone politiche del passato come, ci si passi il termine, “merch” è una questione a due facce. Proprio come l’ormai famigerata maglietta di Kanye aveva un lato accettabile, quello con la grafica del Papa, e uno invece intollerabile, così l’icona politica del passato è abbastanza distante e safe da poter essere indossata e sfoggiata senza problemi, mentre lo statement troppo vicino a uno scottante presente è qualcosa di, appunto, intollerabile.
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Anche a Milano, in questa stagione, Gucci ha frequentato la politica con Alessandro Michele che ha reso la scritta F.U.O.R.I., acronimo di Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano, una grafica utilizzata nel corso della collezione, apparsa specialmente su una giacca e poi indossata dallo stesso direttore creativo. È chiaro, qui, che lo statement politico invoca più l’unità, sottolinea il peso politico della comunità LGBTQ+ e celebra retrospettivamente il movimento di liberazione omosessuale italiano invece che sottolineare un’adesione del designer o del brand agli ideali marxisti supportati dall’effettivo gruppo politico. Al contrario di Enfants Riches Deprimès, lo statement politico in Gucci si fa portatore di quei valori progressisti nel campo dei diritti civili che Michele aveva già sottolineato nello show Cruise 2020 con la giacca “My Body My Choice”, slogan che per altro ha avuto echi anche in questa stagione nei lookbook di Stella McCartney, Imitation of Christ e Rentrayage. Pur nati con sensi diversi, comunque, e pur essendo gli slogan di Gucci più attinenti a questioni politiche presenti, sia la presenza di Mao Zedong sulle t-shirt di ERD che quella del logo di FUORI! sulle giacche di Gucci si rifanno o a un passato puramente estetizzato come nel caso di ERD o a dei valori inclusivi condivisibili che possono essere applicati al presente ma rimangono validi universalmente. Lo slogan sul retro della t-shirt di Kanye, invece, a differenza delle immagini di Giovanni Paolo II, non parla di estetizzazioni né di progressismo, ma costituisce una provocazione pensata per dividere e disunire. Persino l’iper-controversa t-shirt di Vivienne Westwood “God Save the Queen” pur con i suoi toni provocatori e polemici voleva celebrare un patrimonio culturale – anche se oggi forse, nell’ottica di una società post-coloniale, quella stessa t-shirt potrebbe caricarsi di connotazioni impreviste e potenzialmente offensive.
Dai tempi dell’esplosione mondiale di Black Lives Matter, con il sorgere dell’attivismo online (performativo o meno che sia) ma anche con il sorgere dei movimenti di estrema destra come quelli dei supporter di Donald Trump, l’auto-espressione promessa dalla moda è diventata un ambito sempre più ricettivo alle prese di posizione della politica. L’ideologia si indossa, si riduce a slogan (chi ricorda il “Peg the Patriarchy” di Cara Delevigne e il “Tax the Rich” di Alexandra Ocasio-Cortez al Met Gala 2021?) e diventa manifestazione di una società le cui concezioni politiche diventano sempre più polarizzate ed estreme, e dove l’adesione a una delle due correnti diventa caratterizzante anche sul piano degli abiti: pensiamo ai MAGA hat, alle t-shirt con fucili e aquile e a tutti quei codici non-verbali che testimoniano questa o quell’appartenenza. Ma allo stesso tempo i livelli di disillusione e cinismo del pubblico nei confronti della politica e della sua fondamentale ipocrisia mettono in crisi quelle stesse ideologie. E che succede quando, venuta meno l’ideologia, il gusto per lo statement politico persiste? Mao Zedong e Giovanni Paolo II, ma anche le croci del churchcore, diventano decorazioni staccate dal loro significato storico, ad esempio, e diventano facili da appiattire nella bidimensionalità (e per certi versi banalità) di un’icona. Ma lo stesso processo di banalizzazione e azzeramento dei significati ideologici rende tutto sommato superfluo trasformare un personaggio politico in grafica per una t-shirt: sia perché non esiste personaggio politico tanto encomiabile da essere privo di ombre storiche e personali, sia perché l’estetizzazione di un’icona è spesso antitetica ai valori promossi da quell’icona, sia perché ridurre un simbolo politico a decorazione significa, per l’appunto travisarlo sempre e comunque. La moda può correre questo rischio? O, meglio ancora, dovrebbe?