Una stagione di caos e di estasi a Milano
Disegnare una collezione è più facile che trovare un taxi in città, di questi tempi
26 Settembre 2022
Debutti, ritardi, elezioni: questi sono stati i tre temi portanti della Milan Fashion Week appena conclusasi. I debutti sono stati quelli di Maximilian Davies da Ferragamo, quello di Marco De Vincenzo da Etro, quello di Rhuigi Villaseñor da Bally e quello di Filippo Grazioli da Missoni. I ritardi invece sono stati un po’ di tutti – con editor o chi per loro in corsa attraverso la città in un preoccupante numero di automobili, con sfilate che iniziavano in media con un’ora di ritardo, costanti problemi di telefoni scarichi e traffico del tutto intasato dopo ogni show. E infine le elezioni sono state lo sfondo sul quale tutte le varie e alterne vicende dei brand milanesi si sono svolte – sfondo che per certi versi sminuiva con la sua importanza la frivolezza di abiti, eco-pellicce, borse e tacchi-senza-tacchi che hanno dominato le collezioni di womanswear di questa stagione. Se c’è un filo comune che può essere ritrovato nelle molte e diverse collezioni presentate durante la settimana è stata la relativa pulizia delle silhouette, l’assenza di loghi urlati e la generale ricerca di una koinè commerciale nuova basata su un’essenzialità di fondo mescolata a una certa dose di sensualità che molta stampa di livello internazionale ha trovato blanda e poco radicale. Il migliore nel riassumere queste istanze è stato Blazy da Bottega Veneta che parlando nelle sue show notes di «perversa banalità», di «erotismo dell’ultra-sofisticazione attraverso la sartoria», di «look borghese retaggio del passato» e di «souvenir di un gira-mondo» ha creato una somma delle principali direttrici tematiche ed estetiche della stagione.
La ricerca di essenzialità è ancora più evidente se si considera come i due nomi più normalmente barocchi e massimalisti della settimana, Versace e Dolce & Gabbana, abbiano virato lontano dalle oltranze di un tempo, rinunciando a ori e patacche, e optando invece per ensemble più monocromi che raccontavano le estetiche dei rispettivi brand in maniera più implicita e strutturale rispetto al passato. In particolare è stata interessante l’operazione di Dolce & Gabbana i quali hanno offerto al pubblico una selezione di look d’archivio filtrati attraverso la lente contemporanea della sensibilità di Kim Kardashian – il risultato che, oltre all’ovvio appeal del marketing, è risuonato più sincero ed elegante di molte altre collezioni passate dei due designer. Altrove, invece, concettualità e tecnicismo hanno dominato la già menzionata collezione di Bottega Veneta, ma anche gli outing di Prada, Jil Sander e MaxMara che sono stati essenziali al limite dell’avant-garde. Da Gucci l’avant-garde si è invece trasformata in spettacolo funambolico, con l’espediente della doppia sfilata popolata di gemelli che ha ricordato a Milano che una sfilata può essere qualcosa di più elaborato di una semplice rassegna e che la moda è ancora in grado di creare uno spettacolo capace di sorprendere e farsi ricordare. Più diretto è stato invece Moschino che, abbandonandosi a una fantasia dai sapori anni ’80, ha evocato con piglio moderno e ultra-ironico sfilate e silhouette d’altri e più opulenti tempi. Alla stessa maniera Moncler ha trasformato il suo show in uno spettacolo faraonico con duemila ballerini presenti in Piazza del Duomo – una nuova dimostrazione delle possibilità creative di uno show, al di fuori del format della classica “rassegna”.
Essenzialità si è vista poi all’opera da Ferragamo, che il restyling operato da Maximilian Davies ha già colorato di una nuova patina di fascino e novità che il brand aveva abbondantemente perso negli ultimi anni. Davies ha un compito complicato di fronte a sé: un designer che viene dall’effervescente Londra ritrovatosi tra le antiche, pesanti mura di una signorile casa toscana tanto opulenta quanto antiquata – eppure lo show di sabato scorso ha dimostrato che un restyling è possibile e che Davies è la figura creativa giusta per rendere lo storico brand rilevante e vitale di nuovo. Simile operazione, in una forma più controllata, è stata svolta da Rhuigi Villaseñor con Bally che ha richiamato il Gucci di Tom Ford ma in una chiave meno decadente. Aria di decadenza tirava invece da Blumarine, da Diesel, da No. 21, da Andreadamo e da AC9 che hanno presentato una serie di look sensuali e discinti, ispirati a una specie di libido morbosa fatta di abiti trasparenti o ridotti, con drappeggi di cinghie, spalline calate, tagli che rivelavano, spalline e orli di pizzo strappati, silhouette quasi lacere. In particolare, le muse che Alessandro dell’Acqua ha portato in passerella sembravano il ritratto di un’estrema, romantica eleganza sopravvissuta a un naufragio che ha sdraricato codici, rotto simmetrie, scompigliato norme sociali.
E se brand indie come Cormio e Sunnei hanno evitato i grandi statement proponendo un normcore rivisitato, vagamente eccentrico, come ha fatto anche Andrea Incontri per il suo show inaugurale da Benetton e in chiave pop Massimo Giorgetti da MSGM, il Ferrari di Rocco Iannone ha proseguito la propria evoluzione stilistica muovendosi verso una silhouette contemporanea e indossabile, rielaborando soprattutto un elemento iconico presente nell’immaginario del brand e cioè l’iconica tuta da racing che viene proposta sia in una forma vicina al vero, con i colori del brand e i relativi loghi, che in una versione più sofisticata, in pelle. Significativa, invece, è la sfilata di Tokyo James, forse unico designer di questa stagione a fondere in maniera convincente istanze sociali, personali e commerciali in uno show che non è parso creativamente dipendente da nessun’altra ispirazione ma è stato anzi coeso, concentrato e preciso come un laser ma soprattutto che ha rappresentato l’unico outing di un designer indipendente dalla voce forte e decisa e dalla vision non ostacolata da esigenze commerciali e acrobazie retoriche di sorta. Un designer che, speriamo, continuerà a utilizzare Milano come sua piattaforma e tenere viva la sua scena indipendente.