Il fast fashion e i designer indipendenti possono davvero coesistere?
Dentro il nuovo mondo delle collaborazioni di moda “indie”
20 Settembre 2022
C’era un tempo, durato praticamente fino allo scorso inverno, in cui moda e fast fashion amavano sparare grosso con le loro collaborazioni: Fila x Fendi, Versace x H&M, Champion x Vetements, Gucci x The North Face, Converse x Comme des Garçons, adidas x Prada, Dior x Jordan e via dicendo. La logica dietro la collaborazione era di riunire due giganti del fast fashion e del luxury fashion e di combinarne l’appeal creando collezioni il cui prestigio fosse la somma del successo commerciale delle singole parti. È anche vero che, a quasi dieci anni di distanza dall’inizio del format della collaborazione, il format ha iniziato a stancare, il mercato è diventato iper-saturo e le collaborazioni stesse troppo costose e ripetitive oltre che poco ispirate da non fare nemmeno più notizia. In reazione allo spossamento del format, dunque, le collaborazioni hanno intrapreso due strade: da un lato ci sono le mega-collaborazioni di lusso come quelle che Fendi ha intrapreso con Versace, Marc Jacobs e Tiffany & Co. mentre dall’altro si è sviluppato un nuovo ecosistema di collaborazioni tra brand di fast fashion o di sporstwear che operano su scala globale e brand di moda “indie” di cui pochi, al di fuori delle fashion week, avevano sentito parlare. Il caso più recente è la collaborazione di Fila con Haider Ackermann, ma ci sono anche Zara e Studio Nicholson, Uniqlo x Helmut Lang, RAL7000STUDIO x Bershka, Puma x Palomo e adidas x Wales Bonner.
Molte di queste collaborazioni sono state salutate con reazioni miste. Se il link-up di Palomo e Puma è stato considerato una hit riuscitissima; l’incontro tra Zara, la madre di tutti i brand di fast fashion, e un piccolo brand di culto indipendente come Studio Nicholson ha suscitato uguale ammirazione e dubbi circa la compromissione dei valori di quest’ultimo e naturalmente la sostenibilità. Qualcosa di simile sta accadendo anche per la notizia della prossima collaborazione di Fila e Haider Ackermann: cosa possono avere a che fare l’ex-brand italiano con il couturier avant-garde che Karl Lagerfeld un tempo designò come erede di Chanel e che rifiutò la direzione creativa di Maison Margiela? Da un lato queste collaborazioni sono in effetti una grande opportunità per le label indipendenti i cui margini, pur operando nel mondo del lusso, non sono elevatissimi e possono godere della nuova esposizione mediatica – dall’altro la divisione di valori che dovrebbe esistere tra il piccolo atelier di design e il colosso commerciale globale è davvero qualcosa di inconciliabile. L’appeal dei piccoli brand indipendenti sta quasi tutto nella loro autenticità che non si piega di fronte a quei trend di mercato che i brand di alta moda commerciali devono invece rispettare. Non di meno la natura meno direttamente commerciale dei brand indipendenti rende queste collaborazioni meno un cash grab e più un'occasione di comunicazione tra le label stesse e il pubblico generale che può così educarsi ad apprezzare un prodotto meno mediocre di quello che il fast fashion propone di solito.
In termini pratici, la questione si risolve sul piano del risultato. Finora l’output di queste collaborazioni con brand “indie” è stato positivo: non potendosi basare sulla potenza del logo, il design vero e proprio emerge con ottimi esiti e in generale i prodotti sono meglio pensati ed espressivi. Queste collaborazioni dimostrano anche che la moda e la qualità nelle costruzioni non deve essere necessariamente overpriced: in un mondo in cui alcuni brand vendono felpe di materiale sintetico e scarpe da ginnastica a centinaia o migliaia di euro, scoprire che può esistere un cappotto di lana, una scarpa derby o un mule ben disegnato dimostra quanto in realtà i prezzi del lusso siano spesso gonfiati. Né si potrebbe rimproverare a queste collaborazioni di portare verso il pubblico di massa un linguaggio di design più interessante e progressivo che, altrimenti, rimarrebbe confinato in ristretti circoli dei connoisseurs senza avere un reale e durevole impatto nel quadro generale della moda. Potremmo allora definire queste collaborazioni come un accettabile compromesso, tanto sul piano della qualità che su quello della cultura. Ma allora lo stesso destino delle collaborazioni di un tempo, quello della saturazione, attende anche questa nuove generazione di unioni creative? Speriamo di no.