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Perché la Cina cancella i brand?
A volte chiedere scusa non basta
18 Luglio 2022
Secondo uno studio condotto da BOF, il nazionalismo crescente sul territorio cinese continua ad essere una minaccia per i marchi stranieri, che dal 2016 ad oggi hanno subito almeno 78 boicottaggi, un numero sei volte superiore a quello registrato negli otto anni precedenti. I 1,4 miliardi di acquirenti cinesi rappresentano un incredibile potenziale di introiti per i brand internazionali, ma allo stesso tempo il rigido regime politico è sempre stato un ostacolo, specialmente durante i periodi storici di particolare tensione come la guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti o il genocidio demografico e culturale degli Uiguri, un reato contro l’umanità che i marchi hanno condannato pubblicamente, subendone presto le conseguenze. In linea di massima le aziende statunitensi, giapponesi e francesi sono state le più frequentemente prese di mira, in settori come l'alimentazione, il beverage, i beni di lusso e l'industria automobilistica. I media statali, ad esempio, hanno sostenuto una campagna del 2019 contro i marchi di lusso, tra cui Coach, Versace e Givenchy, per non aver rispettato “l'integrità territoriale della Cina”.
È molto semplice ferire la sensibilità del governo cinese: Walmart Inc. si è dovuta scusare nel 2018 per un cartello in uno dei suoi negozi cinesi che indicava Taiwan, e non la Cina, come origine di alcuni prodotti, ma non lo ha fatto nel 2021 in seguito alle accuse rivolte sui social media per aver tolto dagli scaffali prodotti provenienti dallo Xinjiang. Tuttavia è difficile discernere se sia meglio giustificarsi o meno di fronte alle accuse, nel caso di H&M - la più grande azienda bersaglio dell'ondata di boicottaggio legata allo Xinjiang lo scorso anno - non scusarsi, affermando di aver sempre rispettato i consumatori cinesi e di essere impegnata nella crescita a lungo termine nel Paese, ha portato alla cancellazione da quasi tutte le piattaforme di e-commerce, in altri casi invece, le scuse hanno provocato un ulteriore contraccolpo, con gli utenti dei social media che hanno accusato aziende come Hugo Boss di comportarsi in modo ipocrita.
Xi Jinping ha visitato lo #Xinjiang. Intanto tarda ad arrivare il Rapporto @UNHumanRights della visita del Commissario ONU per i Diritti Umani @mbachelet effettuata a maggio nella regione abitata dagli #uigurihttps://t.co/WQYCfewyPO
— Matteo Angioli (@Matteo_Angioli) July 15, 2022
Una strategia vincente è stata quella di Uniqlo, che, nonostante la storica rivalità che lega Cina e Giappone, è rapidamente riuscito a diventare uno dei marchi d'abbigliamento preferiti in Cina. Sebbene dunque il sentimento anti-giapponese nel Paese sia pervasivo e la concorrenza con i brand locali sempre più agguerrita, il marchio di Yamaguchi, noto per i capi di base funzionali come magliette, jeans e biancheria intima termica, si è assicurato secondo Bloomberg l'1,4% del mercato cinese dell'abbigliamento, dal valore di 350 miliardi di dollari, nel 2021: una quota maggiore di qualsiasi altro marchio, cresciuta rispetto al 0,4% di dieci anni fa. Inoltre, tra il 2018 e il 2022 - un periodo tumultuoso che ha visto alcuni marchi globali colpiti da boicottaggi nazionalisti in Cina - Uniqlo è rimasto tra i primi cinque rivenditori di abbigliamento femminile sulla piattaforma di e-commerce Tmall, l'unico marchio straniero a non perdere la sua posizione scegliendo di tenersi ben lontano da qualsiasi conversazione politica. Sicuramente la chiave per il successo e per la collaborazione con il governo cinese è il silenzio, ma rifiutare di schierarsi pubblicamente di fronte, ad esempio, un genocidio come quello Uiguri in onore delle vendite è davvero perdonabile?