Le shopping app che vogliono farci fare meno shopping
Combattere i consumi per continuare a consumare
08 Luglio 2022
Uno dei principali problemi che la moda deve affrontare nel campo della sostenibilità è il sovraconsumo. Uno studio del 2016 della National Library of Medicine, per esempio, notava già molti anni fa che «la frequenza della CBB [compulsive buying behaviour, ndr] è aumentata in tutto il mondo negli ultimi due decenni», con un’impennata che seguiva lo sviluppo dello shopping online. Proprio su questa correlazione si basa un altro studio pubblicato a marzo nel Journal of Internet and Digital Economies secondo cui «lo shopping su Internet aumenta gli acquisti compulsivi». Un dato la cui conferma può essere abbastanza empirica considerato come, nel campo della moda per esempio, i principali retailer del lusso possiedano le proprie app dedicate su cui si possono fare acquisti con un semplice click grazie ai dati delle carte di credito pre-salvati e i checkout rapidi. Il problema del sovraconsumo ha raggiunto dimensioni (anche psicologiche) così importanti che una nuova generazione di app è nata per contrastare questi pattern comportamentali. Alcune di queste, elencate da BoF, sono ad esempio Shopping Addiction Calendar, ByeByeBuy, Quitzilla e BlockSite – anche se lo stesso autore dell’articolo, Marc Bain, nota che la loro influenza è relativamente troppo debole per risolvere, ad esempio, i problemi di debito nati con la diffusione dei vari format di rateizzazione dei pagamenti come il “buy now pay later”.
@renee.benes Hope this helps #shoppingaddict #shopaholicgirl #debtfreeliving #minimalismtiktok Quirky - Oleg Kirilkov
Proprio questo format, le cui modalità variano a seconda delle app che usano, ha condotto specialmente in America a un serio problema di debito per i consumatori più giovani. Come scrivevamo in un precedente articolo infatti Scott Galloway, professore di marketing alla NYU, ha difatti definito il BNPL "l'equivalente della crisi dei mutui subprime". Il tutto si è complicato dopo le recenti indagini condotte dal The New York Times sui cosiddetti “dark pattern” dei retailer di lusso, inclusi quelli secondhand. I dark pattern (il termine venne coniato nel 2010 dal consulente britannico Henry Brignull) sono delle tecniche di marketing occulto che, ad esempio, notificano a un utente che un altro utente ha risparmiato una certa quantità di denaro usando un certo codice sconto, istigandolo così a compare a sua volta – tranne per il fatto che il secondo utente non è mai esistito e il sito sta giocando con la mente dei propri clienti. Altre tecniche vanno dal semplice color coding di pulsanti e bottoni a complessi algoritmi che prevedono comportamenti e suggeriscono prodotti pensati ad hoc per i diversi clienti. Secondo il The New York Times:
«La prevalenza dei dark pattern nel web è sconosciuta, ma in uno studio pubblicato questa settimana, i ricercatori dell'Università di Princeton hanno iniziato a quantificare il fenomeno […]. I ricercatori hanno sviluppato un software che ha scansionato automaticamente più di 10.000 siti e hanno scoperto che più di 1.200 di essi utilizzavano tecniche che gli autori hanno identificato come "dark pattern"».
Le app anti-consumo di cui si parlava sopra si basano su simili meccanismi psicologici. Molte di esse, ad esempio, usano sistemi di calendarizzazione e di blocco dei siti per costringere, ad esempio, l’utente ad acquistare un singolo prodotto la settimana o pianificare le proprie spese in modo tale da scoraggiare lo shopping compulsivo. Sia negli USA che in Europa, pur con percorsi legislativi diversi tra loro, un tipo di regolamentazione è giunto attraverso le recenti disposizioni sulla privacy degli utenti e sulla raccolta e l’uso dei loro dati. In America per esempio due senatori hanno proposto una legge che renderebbe illegali i dark pattern e trasferirebbe la competenza di sorvegliarli alla Federal Trade Commission. In Europa è invece in piedi dal 2018 la General Data Protection Regulation, o GDPR, che è forse la più severa regolamentazione sulla compravendita e sull’uso di dati al mondo. La legge finora ha funzionato, ma possiede una falla fatale in quello che il Center for Strategic & International Studies definisce “meccanismo di consistenza”: « I principali giganti tecnologici, tra cui Facebook, Twitter, Google e Apple, hanno dichiarato l'Irlanda loro sede principale, rendendo la Data Protection Commission irlandese l'autorità principale. Tuttavia, il DPC è stato limitato da risorse e personale insufficienti, che hanno portato a un notevole arretrato di casi».
La questione non è di semplice soluzione, specialmente per la moda. Da un lato infatti brand e retailer si sforzano per rendere l’esperienza dello shopping sempre più fluida e personalizzata, dall’altro però questa crescente sofisticazione avviene a discapito della privacy degli utenti stessi. In generale, è opinione comune che la sostenibilità nella moda si fondi sull’impiego di materiali sostenibili e sull’arresto al sovraconsumo – ma è in dubbio che le app anti-shopping possano arginare un problema che rasenta le proporzioni del fenomeno antropologico. Il fatto che siano nate, comunque, testimonia che una parte del mondo tech stia iniziando a rendersi conto del problema, Apple inclusa, che con i suoi ultimi update ha messo più in sicurezza i dati dei propri utenti. Se il meccanismo funzionerà o meno lo dirà solo il tempo.