L’eterna e contraddittoria estasi della rockstar
Ovvero, lo strano rapporto della moda con ciò che resta del rock
24 Giugno 2022
Ieri, dopo molti mesi d’attesa, il biopic Elvis di Baz Luhrmann è arrivato nelle sale italiane. La release e il successo del film sono legati tanto al mito della prima rockstar della storia che a quello del suo stile – stile che, nella pellicola di Luhrmann, è quasi più roboante e infiammato che nella vita vera e che ha già coinvolto, nelle fasi preliminari della sua release, due pesi massimi della moda: Miuccia Prada, che ha collaborato con la costumista Catherine Martin per firmare gli outfit dei personaggi del film con pezzi di archivio di Prada e Miu Miu rivisitati per l’occasione; e Hedi Slimane, che ha iniziato a vestire la star del film Austin Butler in tutti i suoi eventi e red carpet, al fianco della sua fidanzata, la modella Kaia Gerber, già da anni uno dei volti simbolo di Celine e delle sue campagne. Sempre negli ultimi giorni, Hedi Slimane ha arruolato una delle più iconiche rockstar dei nostri tempi, Jack White, per la sua serie Portrait of a Musician. Durante l’ultima Milan Fashion Week, invece, Alessandro Michele ha co-disegnato la capsule collection Gucci HA HA HA insieme a Harry Styles, che è più una star del pop che del rock, ma le cui parentele stilistiche con David Bowie (e dunque la cui ascendenza rock) sono inconfutabili. E a questo si aggiunge anche il recente stringersi del rapporto tra Gucci stesso e i Maneskin e alla presenza della musica del gruppo rock islandese Kaleo nelle pubblicità del profumo di Emporio Armani, ma anche alla presenza, allo show di Dolce & Gabbana dello scorso gennaio, di Machine Gun Kelly, che dopo aver frequentato la scena rap si è riciclato rockstar. La domanda dunque sorge spontanea: la moda è tornata a innamorarsi della chitarra elettrica?
La risposta semplice alla domanda di cui sopra potrebbe essere un «Sì». Eppure è peculiare il fatto che, a oggi, il rock non sia il genere più popolare del mondo, superato dal pop, dall’hip-hop e dall’elettronica in tutte le sue molte forme. Certo, viviamo in un’epoca in cui la distinzione dei generi va annullandosi sempre di più, in cui i beat dell’elettronica, le barre del rap, le chitarre del rock e gli arrangiamenti del pop non si isolano più nei compartimenti stagni del passato. Sempre la nostra epoca sente un avido bisogno di figure carismatiche, di leader e di icone e continua allo stesso tempo a dipendere da quelle del passato. Si è detto negli scorsi anni che i rapper sono le nuove rockstar, cosa che è vera in quanto proprio loro sono diventati i protagonisti delle scene musicali mondiali catalizzando il carisma delle rockstar del passato, figure ormai tanto venerate quanto antiquate e inadatte ai tempi. Non è insolito tra l’altro che le star dell’hip-hop evochino l’immaginario del rock in alcuni look o performance dimostrando come, in questa e moltissime altre manifestazioni dello zeitgeist contemporaneo, il mito della rockstar abbia ancora una certa presa e un certo significato. Dopo tutto, fu il mondo del rock ad anticipare tanti elementi della nostra cultura contemporanea: l’idea di celebrity, di androginia, di ribellione alle norme sociali – senza parlare del glamour associato allo stile di vita delle rockstar sopravvissuto nella moda con Hedi Slimane, Jun Takahashi e Takahiro Miyashita, Vivienne Westwood, Raf Simons, Ann Demeulemeester ma anche, sul più banale piano del linguaggio delle press release, nei molti richiami all’ ”estetica rock”, al “rock chic”, al “punk” o al “grunge”. Dovunque ci si rigiri, la reference al rock sembra inevitabile – anche se si ferma sempre e solo sulla superficie.
Se del rock amiamo la patina superficiale ma non i valori è perché il rock, in quanto cultura di pura eversione, presenta profonde problematicità e criticità che il metaforico apparato digerente della cultura pop contemporanea non è più in grado di assimilare. Oggi la qualità di una figura pubblica si basa sulla positività del messaggio che trasmette, sulle cause che sostiene, sull’esempio che stabilisce per i suoi fan. In breve, le rockstar di oggi non potrebbero essere mai le rockstar del passato – sia sul piano musicale che su quello comportamentale. Dopotutto nel mondo di oggi non c’è spazio per la versione vera e non edulcorata della rockstar: se oggi un cantante si facesse arrestare sul palco, fosse fotografato con il naso affondato nella cocaina, si portasse a letto le sue groupies e distruggesse camere d’albergo verrebbe immediatamente bollato come “personalità tossica” o “esempio pericoloso” come accadde in parte a Justin Bieber durante la sua fase scapestrata, fatta di risse, corse in auto e bravate di ogni tipo. Il culto dell’auto-distruzione e del vizio a cui la figura della rockstar si associa abitualmente non è più socialmente accettabile oggi – basti pensare a come tempo fa Damiano dei Maneskin abbia dovuto pubblicare i risultati dei test dopo essere stato accusato di aver fatto uso di droghe. Rimane, della rock star, l’aura appassionata, sensuale, ambigua ma sotto la sua giacca di pelle borchiata, dentro i suoi stivali e i suoi jeans sbrindellati non c’è più un lifestyle. Del maledettismo della rockstar gli eredi sono figure come Amy Winehouse, XXXTentacion, Juice Wrld, Lil Peep - tutti personaggi tragici e problematici che però, essendo scomparsi in giovanissima età e spesso anche agli esordi della propria carriera mainstream (persino Amy Winehouse era al suo secondo album ai tempi della sua morte) non sono diventate grandi icone trans-generazionali capaci di definire un'epoca pur avendo lasciato indietro una propria legacy. Rimane, in una parola, la versione più vistosa e meno aggressiva del rock possibile: il glam.
Ripulito delle sue attitudini violente e oltraggiose, rivestito di paillettes e androginia, il glam rock rappresenta forse la reference centrale per stylist ed editor di oggi, insieme alla scena psichedelica e allo stile personale dei vari Jim Morrison, Mick Jagger, Jimi Hendrix, dei Beatles e via dicendo. La giocosa corrente glam, che rifiutava le incendiarie velleità anarchiche del rock precedente, che abbracciava la commercialità delle audience di massa, si ribellava alla ribellione del rock anni ’60, gettandosi a capofitto nella teatralità e nel poliformismo di cui i nostri tempi bramosi di stimoli sensoriali sempre nuovi hanno bisogno. Harry Styles, i Maneskin, l’Elvis di Baz Luhrmann (che è diverso da quello storico), Machine Gun Kelly e persino lo scandaloso Marilyn Manson sono tutti figli, chi più e chi meno, del glam rock.
Nello specifico, proprio con Harry Styles, si ravvisa la maggiore differenza tra rockstar di oggi e di ieri: in questi giorni circola un video in cui Styles interrompe un concerto per trovare nel pubblico la sua vecchia maestra di scuola e la ringrazia in ginocchio in mezzo al pubblico in delirio – praticamente un’apoteosi dei buoni sentimenti che mostra bene di che tipo di figura pubblica abbia appetito la nostra società. La wholesomeness sostituisce la edginess, l’adesione alle cause umanitarie subentra al posto di eccessi e sregolatezze e persino il sesso, così ostentato dai Maneskin sempre seminudi, allacciati in pose orgiastiche e ricoperti di cinghie sadomaso, non si traduce mai in atteggiamento borderline ma rimane una decorazione, un elemento puramente performativo che viene dismesso, a fine concerto, insieme ai costumi di scena.
Cosa resterà dunque della rockstar? Un paio di stivali a punta, smalto nero sulle unghie, un chiodo di pelle sovraprezzo? Oppure il rock è un’attitudine, una ribellione? Ma ribellione verso cosa e verso chi? L’ossessione che il mondo della moda e della cultura pop prova verso le rockstar è solo la dimostrazione che, nella nostra società, non c’è più spazio per quelle controculture la cui memoria andiamo evocando così avidamente. Le nostre icone non sono più sovversivi e sediziosi che danno fuoco alle chitarre sul palco ma semplice brava gente, persone gentili e tolleranti, magari che hanno pure smesso di fumare durante la pandemia e che droga e alcol non li hanno visti mai visti nemmeno da lontano (o almeno così dicono). Eppure era quella cattiva gente che negli anni ci ha procurato le icone che oggi i brand riproducono in serie e ci rivendono nelle boutique sotto le rischiose ed eccitanti spoglie di una ribellione pre-confezionata, igienizzata e, tutto sommato, innocua. Ai posteri l’ardua sentenza.